Dopo il pezzo sul Nuotatore e i Massimo Volume, Alessio Barettini torna con un articolo appassionante su un artista difficilmente catalogabile, uno sperimentatore imprevedibile ed enigmatico da scoprire e ri-scoprire…
Chi era Scott Walker?
Difficile capire chi era Scott Walker, dove sarebbe arrivato se avesse avuto più tempo e più libertà e quanto ha inciso sul panorama artistico-musicale del XXI secolo, anticipandone scenari e atmosfere che forse sono addirittura di là da venire.
L’énfant prodige dell’Ohio, morto appena due anni fa, sfida le leggi del tempo. Ne è completamente immerso quando si costruisce una carriera a metà fra i Beatles e Frank Sinatra, ma ne esce del tutto per il fallimento del suo decimo album solista e scompare dalla scena, nel 1974. Fino al 1978, quando ci rientra dalla porta di dietro, prima coi suoi “fratelli”, e comincia a scorrazzarci dentro a passo sostenuto, prima facendo letteralmente sobbalzare la mobilia degli anni ’80, poi riordinando un po’ di oggetti a suo gusto negli anni ’90 e infine dando vita a un nuovissimo arredamento, con i due album solisti che concludono la sua parabola e la trilogia iniziata nel 1995.
Un pioniere dell’art-rock è quello che diventa. Uno sperimentatore, un compositore moderno poco musicale e molto letterario, quasi un artista visuale.
Per lui sono stati fatti paragoni altissimi: Dostoevskij, Camus, Joyce, Sartre, Jodorowski, Lynch, Bowie, Eno e J. Cocker.
Dal 1978 al 2019 ha un ritmo di lavoro lentissimo. Sia in fase compositiva sia in studio, dove peraltro si muove in modo anomalo rispetto al solito: parte dai testi, canta seguendo il senso delle parole, la voce è il centro del suo mondo.
TILT – THE DRIFT – BISH BOSCH: LA TRILOGIA DAL FUTURO
4 brani nel lavoro con i “fratelli” con cui si è riunito per rientrare in gioco, Nite Flights (brano coverizzato anche da Bowie in Black Tie, White Noise) e poi quattro album, Climate of Hunter, dell’84, più tre opere radicali e innovative, i cui titoli sono già un programma, più altre collaborazioni interessanti. Tilt, The Drift e Bish Bosch. Tilt, la rottura, The Drift, la deriva e Bish Bosch, una riuscita fantasmagorica, cosmogonica, che si rifà esplicitamente a Hyeronimus Bosch, il pittore allucinatorio del Giardino delle Delizie.
A me ricorda Witold Gombrowicz, il grande scrittore polacco. Di lui Rita, la sua compagna, aveva detto: “Un artista non può che essere impegnato nell’arte, che è scegliere il meglio. L’arte non deve essere sottomessa a niente e a nessuno se non all’arte stessa”. L’artista secondo Gombrowicz è un purosangue feroce e indomabile. Aveva preferito restare povero, sconosciuto, senza appoggio, libero e indipendente, ed è stato lo stesso per Scott Walker, un uomo che non può essere giudicato con paragoni o con categorie generali, con etichette già appartenute ad altri. Ha fatto quel che ha voluto, senza ammiccare a pubblico o vendite. E se non è questa la vera, sola condizione dell’arte, non vedo cos’altro dovrebbe essere.
Una delle critiche più frequenti che gli si fanno è di essere musicalmente inascoltabile, angoscioso, vizioso. Di certo è vero: non ci sono armonie facili in questi suoi ultimi album, per quanto i tentativi di scardinare e di sperimentare siano inseriti in una logica che spesso rispetta la forma della canzone pop. Rilassante poi, non è di certo, anche se la sua profondità in questa direzione travolge, se si ascolta con attenzione, anche la nostra stessa concezione di situazione angosciosa. Vizioso lo è, volutamente, con la sua voce sorprendente sempre al centro di tutto, il punto di ritorno di ogni artificio, di ogni combinazione sonora. Un basso continuo, addirittura, il perno intorno al quale ruota la costellazione di suoni che ne costituiscono la sua peculiarità.
I paragoni riportati sopra non suonino fuorvianti: Walker ha lo spirito di ricerca di Dostoevskji, la capacità di esplorare l’ego e i suoi dintorni attraverso suoni ripetuti, esplosioni, ossimori che ci disorientano con meticolosa precisione. Di Camus e Sartre, dell’esistenzialismo, insomma, Walker ha quel grido che perfora il ‘900 e lo supera, spostando i limiti del concesso in un’area incontaminata. Di Joyce ha l’arzigogolo, il frizzo, il salto logico e sonoro, linguistico e di linguaggio. E poi le imprevedibili trovate di Jodorowski e Lynch, epigoni dei salti semantici di Bunuel e Breton, il surrealismo che rende tutto permesso, le immagini che creano senso arrivando da un oltre che non ha confini, attraverso traiettorie imprevedibili e mai scontate. A loro bisogna aggiungere Kafka, forse, l’unico che abbia costruito un sistema artistico sull’incertezza, sull’impossibilità di chiudersi dentro teorie prestabilite.
E poi Bowie, che lo ha aiutato, che è stato altrettanto pioniere e che lo ha amato per il suo modo di cantare, quel crooner che ha tratto tutto il possibile da quel vezzo europeo e serale e fluviale che è stato soprattutto di Jacques Brel, che entrambi hanno infatti interpretato più volte.
Consigliatissimo: recuperare il film che parla di lui, 30 Century Man, adesso disponibile su MUBI, il documentario dove è impagabile vederlo percuotere carne surgelata di maiale per ottenere suoni o anche solo per vederlo nel processo creativo, lungo il quale i suoi musicisti non vengono informati della partitura fino all’ultimo momento.
Strano. Già. Ma nello strano ci sono delle perle come Farmer in the City (Remembering Pasolini), Clara (dedicata a Clara Petacci), Jesse (dedicata al gemello nato morto Jesse Presley), SDSS1416+13B (Zercon, A Flagpole Sitter), composizione di oltre 21 minuti e la magnifica Epizootics!, singolo in Bish Bosch accompagnato da un video a dir poco spettacolare!
E i testi? Parole scandite, gridate, suggestioni che trascinano il brano lungo una ferrovia di stazioni icastiche e immaginifiche che appaiono all’improvviso insieme a un lampo nel buio di un paesaggio vasto e desolato che è il nostro tempo.
Alessio Barettini