Nel primo articolo di MusicPhilò ho accostato Hendrix a Giordano Bruno accennando al loro comune tendere alla visione di mondi infiniti.
La warm gun di questa settimana coincide invece con un ricordo – nell’inesorabile fuggire del tempo – di due anni fa, e in particolare di un concerto nello splendido teatro Bibiena di Mantova.
Ero lì perché stavo scrivendo l’ultima parte di un libro che lo riguardava e per nulla al mondo avrei perso l’occasione di vederlo suonare dal vivo e, chissà, magari incontrarlo di persona.
Un conto è ascoltare dischi, CD, singoli brani dai vari dispositivi o leggere libri e recensioni.
Un altro è trovarti al cospetto di un essere umano che stimi profondamente, che ha attraversato ogni genere di avversità nella sua esistenza e che a 75 anni è ancora sospinto dalla voglia di suonare in giro per il mondo con il suo trio jazz.
Un libro su un artista poco conosciuto?
Sapevo che sarebbe stato un azzardo pubblicare un libro su un artista ormai poco conosciuto, almeno nel nostro Paese. Ma ero convinto che la sua storia andasse raccontata. E volevo farlo a modo mio.
Perché Pat Martino non è soltanto un geniale e innovativo chitarrista jazz italo-americano, ma anche un uomo che ha saputo ricostruire l’intera sua vita facendo leva su alcuni insegnamenti fondamentali delle filosofie orientali.
Questo per me era ed è il punto essenziale: idee, teorie e visioni del mondo devono poter reggere l’urto della vita, anche e soprattutto quando la burrasca imperversa e si cerca affannosamente un appiglio per non essere trascinati via.
È una linea di confine molto sottile, un setaccio finissimo, a stabilire cosa val la pena salvare dei propri castelli di pensieri, spesso così effimeri, e cosa lasciar andare.
Il qui e ora
Personalmente sono sempre stato piuttosto scettico sulla “ricetta” (in realtà tutt’altro che facile) del vivere qui e ora, o momento per momento, come insegnano il prof. Kabat-Zinn e l’ormai nota Mindfulness. È infatti richiesto uno sforzo immane alla nostra mente per non essere trascinata via dal presente e non farsi soggiogare dall’ansia del futuro o dalla morsa paralizzante del passato.
Tuttavia Pat Martino ne ha fatto il fulcro della sua esistenza e della sua arte. La sua stessa sopravvivenza, in fondo, testimonia la forza prorompente di quest’antica concezione orientale, ma non solo.
A seguito di un aneurisma cerebrale e di una serie di interventi invasivi si era ritrovato praticamente senza memoria, dunque senza ricordi personali, senza passato, senza biografia e senza identità: persino la memoria legata alla capacità di suonare era andata perduta.
Uno dei più acclamati chitarristi jazz degli anni Sessanta e Settanta, capace di lasciare a bocca aperta George Benson o Carlos Santana, d’improvviso non sapeva e non ricordava più come muovere le dita lungo i tasti. Né riusciva a riconoscere il proprio volto allo specchio o sulle copertine dei dischi.
Uscirne non fu facile. Ma lo stare nel momento presente divenne per lui, giorno dopo giorno, l’unica vera ancora di salvezza. Il punto di ancoraggio all’unico tempo reale: l’istante, il qui e ora. Trovando forza nella pura consapevolezza di poter dire semplicemente «Io sono», senza cercare altre risposte all’eterna e fallace domanda «Chi sono?».
Risveglio, illuminazione, pace mentale. Nexus, per usare un concetto caro a Martino.
Tutti traguardi – quantomeno al mio sguardo – pressoché irraggiungibili o comunque troppo lontani per poterne anche solo intravedere la rotta.
I Ching e chitarra
Pat si interessava da tempo alle filosofie orientali. Ricercava la propria amplificazione spirituale attraverso la musica. Anzi, cercava costantemente di trasformare la musica, e il jazz in particolare, nella sua personale lente d’ingrandimento sul mondo, con il suo eterno gioco delle polarità: piacere e dolore, notte e giorno, caduta e ascesa…
Gli era caro un libro in particolare: l’I Ching. Il Libro dei Mutamenti. Un testo fondamentale della millenaria civiltà cinese, con cui si cimentò per anni anche Carl G. Jung. Nei suoi 64 esagrammi Martino colse intuitivamente una straordinaria e visionaria corrispondenza con il funzionamento stesso della chitarra. Nonché un potente veicolo di trasformazione interiore, che gli consentì di tornare a suonare e fare musica con rinnovata ispirazione.
Il sorriso del lago
Ad un esagramma in particolare Pat è sempre stato molto legato: il n. 58, già presente nella copertina di Joyous Lake del 1976. Le sue linee esprimono uno stato che, sebbene all’esterno si mostri mite e sereno, all’interno è segnato da profonda forza e saldezza. Segno di perseveranza, è detto “il lago che sorride”.
Ed è esattamente questa la sensazione che mi ha attraversato quando, dopo averlo atteso insieme a una composta fila di appassionati sotto il palco a fine concerto, ho avuto modo di salutare Pat per qualche minuto. Un incontro raro con un essere speciale, mite e gentile, il cui esile aspetto tradisce una forza e una consapevolezza interiore senza pari.
Al di là delle parole che ci siamo scambiati, una cosa su tutte mi è rimasta impressa di quegli istanti. A me, come a tutti coloro che erano lì presenti, Pat ha riservato la stessa attenzione e lo stesso tempo. Lo ha fatto siglando il suo autografo come se stesse disegnando un pezzo unico e raro per la persona che aveva di fronte in quel momento. Il tempo lieve e lento che dedicò alla scrittura delle sue lettere coincideva con il tempo che dedicava a te in quel qui e ora irripetibile per entrambi, a cui lui per primo dava valore.
Non avevo e non ho più provato nulla di simile al cospetto di un essere umano che non avevo mai incontrato prima. Quell’istante breve permane, vivissimo, dentro me, come un incoraggiamento a perseverare, a continuare a inseguire con fatica quel sapere che, proprio come insegna l’I Ching, quando è autentico «è una forza che ristora e vivifica».
Questa è Hipsippy Blues, dal suo superlativo album Formidable del 2017, con una delle copertine più accattivanti di sempre.