Luglio (A cura di Alessandro Vailati)
Dieci anni senza “Mr. Laid Back”
Il 26 luglio 2013 J.J. Cale abbandona improvvisamente questo mondo, lasciando un inestimabile patrimonio musicale, filosofico e umano. Ripercorriamo le tappe più importanti della sua vita e della sua discografia, per non dimenticare un personaggio unico, puro, sincero e davvero troppo sottovalutato.
Partendo da un altro anno e mese da ricordare, quell’epico agosto 1970 in cui vede la luce un album memorabile, rivivremo poi la sua profonda connessione a Eric Clapton, l’artista più importante per la sua carriera, diventato in seguito uno dei suoi migliori amici.
La filosofia di vita di un uomo veramente speciale
«Fu Billie Holiday la prima artista laid back: cantava sempre in ritardo sul ritmo, sia fosse veloce, sia fosse lento. Nessuno lo notò. Poi arrivai io e decisero di utilizzare tali parole per me. E funzionò. Come vedete, questo non è altro che fottuto music business.» Dal DVD To Tulsa And Back
Laid back, traducibile in italiano come “rilassato”, è stato affibbiato al suo stile dai critici musicali ed è diventato un vero trademark per il musicista che, come sempre in modo sorprendente, ne ha dato un’interessante spiegazione, citando Billy Holiday.
Approfondendo ulteriormente la cosa ci si può rendere conto di quanto questa “tranquillità”, vicina al vero e proprio “scazzo”, rappresenti una filosofia di vita, incarnata anche nel modo di vestirsi e di atteggiarsi. Spettinato, camicia rigorosamente aperta, chiusa da un solo bottone in fondo, cappellino appeso alla fibbia dei jeans, ma sguardo profondo e sorriso infingardo, con due occhi furbi e veloci. E sullo sfondo, nelle sue parole, una marcata critica a produttori ed etichette discografiche, interessate solo al profitto e colpevoli della mercificazione dell’arte.
«Perché dovrei promuovere qualcosa che è già un successo?»Dal DVD To Tulsa And Back
J.J. Cale non ha mai inseguito la celebrità, ha messo cuore e passione cercando di stare fuori da tutti quei meccanismi che non concepiva. La definizione di artigiano della musica, anche per la sua predilezione a costruire chitarre impossibili, utilizzando e accorpando scarti dello strumento, tuttavia non è perfettamente adeguata al suo lignaggio: è stato un innovatore del suono, della produzione in studio, e ha creato almeno una dozzina di canzoni che rimangono nel songbook universale della storia della musica.
Rimane un maestro difficile da classificare, la cui filosofia di vita si rispecchia in canzoni apparentemente scarne e semplici, ma in realtà cariche di effetti sonori e suggestioni “atmosferiche” così uniche e particolari da renderne impossibile la mera imitazione o esecuzione.
«Anche la musica viene dalla vita, non la vita dalla musica.» Dal DVD To Tulsa And Back
Le liriche, poi, puntano sempre su una sottile ironia, sia si tratti di riflessioni sul tempo che scorre o si parli della tristezza provata per una relazione amorosa difficile. Ciò che pervade l’intera opera di Cale è l’accettazione del disincanto e l’invito ad accogliere con serenità quello che il destino offrirà. In fondo, per lui scrivere canzoni significa essere osservatori del mondo reale,impossibile andare oltre perché non vi saranno risposte, nessuno lo sa (vedasi Nobody Knows, traccia che chiude uno dei suoi album cult, Guitar Man, 1996).
La carriera, il suo stile e lascito
Nella sua esistenza ha fatto di tutto, dall’ascensorista al tecnico del suono, fino a vivere in una roulotte. Nativo di Oklahoma City, ma cresciuto a Tulsa, John Weldon Cale si diploma alla Tulsa Central High School nel 1956. Ha diciotto anni, e oltre ad avere già imparato a suonare bene la chitarra, è un cultore dell’elettronica, che utilizza per minuziosi esperimenti nel campo sonoro. Nella sua preparazione incide il fatto di aver proseguito questa passione durante il servizio militare all’Air Force Training Command nell’Illinois, dove invece di imbracciare un fucile impara tutti i trucchi dell’amplificazione.
Diversamente da tanti genitori di quell’epoca (aggiungerei tristemente anche di adesso) viene da loro assecondato quando decide di muoversi verso Los Angeles, nel 1964, per sbarcare il lunario. In verità, dopo alcuni anni vissuti anche sull’orlo del vagabondaggio, tornerà deluso a Tulsa. Aveva suonato e prodotto tanto, gli era stato anche cambiato il nome in J.J. Cale al fine di evitare confusione con il famoso membro dei Velvet Underground, ma non era scattata la scintilla.
Non era finita, però. Quando nel 1970 fortuitamente e fortunatamente Eric Clapton incide la sua After Midnight (il felice connubio toccherà l’apice in seguito con Cocaine) finalmente la sua vita cambia improvvisamente. Riesce, ora che riceve gli introiti come autore, a pubblicare il suo primo album, Naturally, e da quel momento la sua attività discografica prosegue ininterrotta fino ai primi anni ottanta. Si rivela un pioniere per l’utilizzo ingegnoso di drum machine e vari marchingegni di pari livello, presenti anche nei brani più conosciuti come Call Me the Breeze e Crazy Mama.
Il suo Tulsa Sound è un’azzeccata miscela di rock, blues con venature country e una strizzata d’occhio al jazz. L’incapacità innata di scendere a compromessi per mantenersi sulla cresta dell’onda lo porta a un oblio, per poi ricomparire all’inizio del decennio successivo.
I nineties sono un’altra tappa decisiva della carriera. Il vecchio amore per l’elettronica prende il sopravvento e registra quattro album, di cui gli ultimi due quasi in solitaria: lui, la chitarra e i sintetizzatori. L’episodio di quell’epoca meglio riuscito, che ha suscitato l’ammirazione del già citato e amico Clapton e ha portato Neil Young a definirlo uno dei suoi maestri, è Guitar Man (1996).
Dopo Guitar Man, tanto per non smentirsi, J.J. Cale scomparirà dalla scena fino al pregiato To Tulsa and Back(2004), corredato in seguito da un prezioso documentario che espliciterà maggiormente la mentalità e umiltà di quest’incredibile artista.
«Non volevo essere lo show, volevo esserne solo una parte.» Dal DVD To Tulsa And Back
E ne sarà una gran parte in quel frangente, con il ritorno ai concerti, lo spumeggiante album The Road To Escondido in partnership con Eric Clapton nel 2006 e, tre anni dopo, l’eccentrico Roll On.
Si era sempre ripromesso di fare musica fino alla fine, fino allo sfinimento, principalmente per lui, tutto il resto era relativo. E ha mantenuto fede a quanto detto, andandosene in un istante per un attacco di cuore in una calda giornata di luglio, nel 2013. Di lui rimane un ritratto di semplicità, che gli ha pervaso esistenza e arte. Tale semplicità ha, però, rappresentato un punto di arrivo, non di partenza, e ha fatto la differenza per elevarlo a maestro. Basterebbe chiedere a tutti i musicisti che hanno piacevolmente incocciato in lui: alla fine hanno suonato alla sua maniera, adottando quello stile unico.
Le influenze
“Cannonball” Adderley, Charlie Christian, Mose Allison e Django Reinhardt sono le influenze dichiarate ed effettivamente aleggiano in tante atmosfere create. Il blues mischiato al country e al folk della tradizione americana definiscono poi la sua predilezione più forte, con il pallino per uno dei musicisti forse maggiormente sottovalutati in assoluto, di nicchia, ma tanto amato pure dai colleghi: Clarence “Gatemouth” Brown.
I suoi principali “seguaci”
Sono davvero tantissimi gli artisti e gruppi che hanno attinto dallo stile apparentemente scarno e dall’acuto songwriting di Cale. Tom Petty, il già citato Young, il compagno di mille avventure Leon Russell, John Mayer, i Poco, Santana e Willie Nelson sono fan appassionati della sua inventiva e filosofia sonora spesso racchiusa in canzoni brevi, ma così ficcanti, “catchy”. Anche una delle band più rappresentative del southern rock, i Lynyrd Skynyrd, non sarebbero gli stessi se non avessero inciso Call Me the Breeze e (I Got the) Same Old Blues, che hanno contribuito a trainare al successo due fra i loro album più acclamati, Second Helping (1974) e Gimme Back My Bullets (1976). Tuttavia vi sono due personaggi per cui i riff, i fraseggi, le ritmiche, le innovazioni e il songwriting sono stati basilari praticamente all’inizio e per tutta la carriera: Mark Knopfler e, ovviamente, Eric Clapton. Se il primo ha fatto salvi gli insegnamenti del maestro americano soprattutto nei primi due album seminali dei Dire Straits ‒ si ascoltino, ad esempio Six Blade Knife, e Follow Me Home ‒, proseguendo poi l’infatuazione in dischi solisti come Shangri-La (2004), Privateering (2012) e Tracker (2015), il secondo ha riletto alla sua maniera alcune tra le più belle canzoni di J.J., rendendole famose, godendosene il successo e permettendo che il suo autore potesse ricevere merito della sua abilità di scrittura. A chiudere una serie di intrecci di influenze e canzoni fra i tre rimane da ricordare l’epocale cover di Setting Me Up presente in Just One Night di Clapton; Knopfler, chiaramente ispirato dallo stile laid back di Cale la incide agli esordi con i Dire Straits e Slowhand la ripropone nel suo più bel disco dal vivo, realizzato nel 1980, facendola cantare ad Albert Lee, sideman di lusso nella sua line-up del periodo, che l’aveva recentemente pubblicata nel suo album Hiding. Il risultato è non solo un piccolo capolavoro, ma la conferma di quanto tali personaggi fossero collegati musicalmente.
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