Circa un anno fa ho avuto modo di intervistare Giuseppe Scarpato, storico chitarrista di Edoardo Bennato nonché autore, compositore e producer di grande talento. Mi aveva colpito molto per originalità e potenza una sua versione di un brano di Jimi durante la Drums and Guitars Night del 2019: mi sembrava quindi perfetto inserire un’intervista ad un artista come lui al termine del libro che stavo completando per Arcana su L’Incompiuta di Jimi Hendrix.
In queste pagine mi soffermo su un Hendrix controverso, quello del dopo Electric Ladyland, il suo capolavoro: un Jimi più vulnerabile, attraversato da dubbi e incuneato in una particolare fase storica in cui la sua arte, la musica, era destinata a evolvere verso nuove dimensioni ancora tutte da decifrare.
La sua morte improvvisa ha lasciato una serie di cose “incompiute”: abbozzi di dischi, canzoni, nastri, progetti, idee… Gran parte di questo materiale caratterizza il suo ultimo anno e mezzo di vita, sul quale mi sono soffermato nel libro. Un periodo di grande intensità e fascino, segnato da forti esigenze di rinnovamento, collaborazioni avviate o abortite sul nascere, altalenanti esibizioni dal vivo, ma soprattutto da un grande lavoro in studio che andrà poi a comporre una copiosa quanto magmatica discografia postuma.
Come in un gioco di specchi, ogni capitolo si struttura attorno a un aspetto lasciato in sospeso, legato a una precisa cornice cronologica e a una o più canzoni pubblicate post-mortem. L’obiettivo è delineare appunto L’Incompiuta di Jimi Hendrix, non solo in riferimento all’opera che stava ultimando ma anche al suo disegno di una nuova forma di musica e di un suo ruolo più prominente come compositore.
Qui di seguito riporto alcuni stralci dell’intervista a Giuseppe Scarpato.
Qual è il tuo approccio al Jimi Hendrix chitarrista?
Quello che di Hendrix più mi interessa approfondire e studiare non è tanto la ripetizione di riff o di assoli nota per nota, quanto piuttosto cercare di carpirne lo stile, il modo in cui suonava, l’approccio ritmico della sua mano sinistra, visto che lui era mancino, ma che in realtà per la maggior parte dei chitarristi è la mano destra, cioè la mano dell’accompagnamento. Troppo spesso i chitarristi si concentrano soprattutto sulla mano che suona sulla tastiera, quella delle note, della precisione, ma in realtà io la penso esattamente al contrario: per me la mano più importante è quella che fa la ritmica, che sia con il plettro o con le dita, perché è lei che dà carattere al modo di suonare. Hendrix aveva una padronanza assoluta della sua mano sinistra, quella del ritmo, e credo che gran parte del suo stile nasca proprio da qui.
Il mio approccio a Jimi Hendrix, quindi, non passa necessariamente dallo studio di una canzone in particolare; più che altro affronto il suo stile, perché è questo che ti porta a scoprire quanto sapesse mescolare straordinariamente i due mondi: da una parte quello della ritmica, della ritmicità, della fisicità nel suonare, che per chi lo guarda con occhio distratto può sembrare anche solo un fattore estetico. A questa forza ritmica, poi, Hendrix ha sempre associato anche una notevole potenza armonica. Spesso viene considerato soprattutto un chitarrista solista, ma la sua forza secondo me è a livello armonico: pensiamo a canzoni come Castles Made of Sand o Little Wing. È qui che si può cogliere la qualità dell’Hendrix autore e compositore. È una caratteristica che emerge in maniera più evidente nelle ballads; per fare un altro esempio, prendiamo un brano come Angel, che ha una struttura armonica bellissima e complessa. Sono canzoni di questo tipo che fanno capire come mostri sacri come Miles Davis potessero avvicinarsi a Hendrix: perché, appunto, non lo consideravano semplicemente un chitarrista che suonava a volumi impossibili, ma analizzavano attentamente quello che scriveva e come interpretava canzoni non sue.
Quanto è stato importante l’Hendrix autodidatta per i chitarristi della tua generazione?
Anch’io sono completamente autodidatta e capisco perfettamente l’approccio di Hendrix, che ha saputo apprendere da tutto quello che ascoltava e poi trasformarlo in uno stile personale. Anch’io ho imparato a suonare da solo e ho studiato per conto mio; del resto, è l’approccio seguito da B.B. King, da Chuck Berry, dallo stesso Clapton…
Col tempo, però, ho sempre più approfondito le cose e ho cercato di imparare molto di quello che poi è diventato il mio lavoro. In realtà, credo che uno degli elementi più importanti per un musicista sia l’aver coltivato l’ascolto di tanta musica, averne assorbita moltissima, aver ascoltato molte cose diverse: è tutto questo che col tempo contribuisce a formare un tuo stile. E in fondo è questo, secondo me, il vero segreto per capire il mondo di Jimi Hendrix: innanzitutto capire in che modo è riuscito a mettere insieme quel modo di suonare, che certo ha inventato ma allo stesso tempo deriva anzitutto dallo studio dei maestri del blues, provando a prendere delle piccole cose da ognuno di loro. Anche nel suo modo di cantare si possono ritrovare tutte le sue esperienze, l’aver suonato con tanti cantanti della provincia americana che facevano R&B, l’essere stato in band di rock’n’roll come quella di Little Richard…
È sbagliato pensare che il suo fosse solo talento innato: in realtà, molto derivava dall’aver ascoltato un sacco di musica e averne suonata altrettanta. Suonare sempre, suonare tanto, è davvero il miglior regalo che un musicista possa fare a se stesso. Non parlo tanto del suonare studiando sullo strumento, esercitandosi a casa da soli, per quanto certamente serva: la più grande esperienza per un musicista è quella di suonare in giro, confrontarsi con un pubblico, perché è lì che capisci in che direzione puoi andare e dove puoi portare la tua arte, fino a che punto puoi estremizzarla o sintetizzarla. Ogni sera, anche solo davanti a cinque o dieci persone in una birreria o in un locale di provincia (come quelli in cui immagino Hendrix suonasse prima di diventare una star mondiale), vedi le reazioni, guardi il pubblico negli occhi e capisci quello che funziona davvero e quello che funziona meno.
Qual è secondo te la “lezione” che Hendrix ci ha lasciato?
Hendrix è stato un grandissimo strumentista e come tutti i musicisti che si concentrano sul loro strumento e sullo studio era uno che sapeva lucidamente quello che faceva. La sua chitarra era sempre sotto controllo, e questa è una capacità che si raggiunge solo quando si dedica tutta la propria vita allo strumento, a farlo progredire, trovando sempre nuove soluzioni.
Questo credo sia l’insegnamento più grande che ha lasciato a tutti noi. Anche allora, infatti, poteva sembrare che sulla chitarra fosse già stato detto e fatto tutto, mentre la vera lezione di Hendrix è proprio questa: ci sono sempre dei margini per andare avanti, per progredire, basta averne davvero voglia.