A cura di Alessandro Vailati
Per celebrare il ritorno della Dave Matthews Band in Italia questa primavera ecco la sintesi della loro incredibile storia, con un occhio di riguardo all’album più rappresentativo, Under the Table and Dreaming, che proprio nel 2024 compie la bellezza di trent’anni.
La DMB a Padova, 2019. Foto di Rene Huemer.
Prologo
Aver cominciato la carriera a inizio anni Novanta, suonando spesso nei luoghi frequentati da universitari, ha lasciato al gruppo di Charlottesville un’etichetta dura a staccarsi: quello di essere una band per “ragazzini”. In realtà, proprio per merito di tali giovincelli e delle loro mitiche cassettine “pirata” dei concerti, il passaparola sulle qualità artistiche dei musicisti “capitanati” da Dave Matthews ha avuto un’impennata e tutto questo ha permesso di far conoscere anche al di fuori di quella realtà l’originalità e la caratura dell’ensemble. Tornando per un momento a quei tempi, inoltre, non era facile trovare in piena epoca grunge e post punk, dopo i “famigerati” Ottanta, una formazione dalle chiare attitudini rock che si accompagnava con una chitarra acustica, un violino e un sassofono.
Quando nel 1994 viene pubblicato Under the Table and Dreaming,la Dave Matthews Band è già consolidata per line-up e percorso artistico intrapreso. Dopo il debutto Remember Two Thingse l’EP Recently arriva la firma per la RCA Records, un poderoso salto in lungo verso la notorietà, e la produzione affidata al leggendario Steve Lillywhite rappresenta altrettanto un ulteriore balzo in avanti in quel senso. L’intensa attività dal vivo, la penna sempre più affilata nella stesura delle canzoni e una forte unione ed empatia fra i membri riescono così a creare le basi per una delle più grandi avventure musicali a stelle a strisce del periodo, con la band tuttora sulla cresta dell’onda, nonostante alcune vicende tragiche accadute e il peso del tempo che passa.
La DMB “storica”. Fonte: Pagina ufficiale della DMB su Facebook
La lineup storica della DMB
I cinque ragazzi, pur con notevoli differenze d’età (dagli allora vent’anni di Lessard ai trentasei di Beauford) hanno già una grande esperienza, sono tutti estrosi e potenziali frontman con carisma da vendere, oltre a essere un bell’esempio di integrazione razziale (tre neri e due bianchi). Chi però tiene il bandolo della matassa, in quanto cantante e principale songwriter, è Dave Matthews.
Classe 1967, Matthews ha una voce a metà strada tra Sting, Eddie Vedder e Peter Gabriel, ma con un’estensione e un registro particolare, suona l’acustica (su cui compone anche gran parte del materiale) con uno stile fuori dal comune, spesso utilizzando progressioni di accordi completamente slegati dalla melodia del canto; difficilmente si cimenta in un assolo, ma le sue ritmiche a tratti sincopate sono immanenti all’interno di ogni brano. Figlio di un fisico di fama internazionale, in gioventù oscilla tra gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Sudafrica, luogo nel quale è nato, a Johannesburg. La precoce morte del padre e le vergognose violenze perpetrate dal regime dell’Apartheid sono certamente un trauma, ma non abbattono il giovane Dave, anzi, ne forgiano il carattere. Trova conforto nella musica classica, nel fragore dei Sex Pistols e la psichedelia dei Pink Floyd, si innamora delle sonorità africane, dei vocalizzi di Youssou N’Dour, e quando si trasferisce a Charlottesville, in Virginia, lavora come barman e si diletta come attore di teatro, mostrando una spiccata capacità recitativa. Tuttavia è la musica a ribollire dentro il suo animo come un fuoco.
Carter Beauford a Capetown, 2012. Foto di Sanjay Suchak
L’importanza della ritmica, precisa, potente alla bisogna e delicata, romantica quando si conviene, si specchia perfettamente nei due Re del groove, il boss Carter Beauford, tripudio di energia e sensualità convogliato in una batteria, uomo dalla risata irresistibile e dal drumming potente ed emozionante con Buddy Rich nel mirino, e il più giovane della “pattuglia”, il bassista Stefan Lessard. Stefan, “Fonz” per gli amici, è imprescindibile per offrire una connotazione moderna alle trame rock, spesso diluite in sonorità country folk, e per dare il la a improvvisazioni jazz, le quali, miscelate con la contaminazione di altri generi, dal soul al pop, conferiscono il sound e il mood caratteristici alla Dave Matthews Band, invero troppo spesso ridotta a essere descritta come jam band, quando, nella realtà, indovinata combinazione di più stili e tradizioni.
La peculiarità dell’intreccio di personaggi atipici si evidenzia con un geniale strumentista dei fiati come Leroy Moore, istrionico personaggio innamorato di Earth, Wind & Fire e Herbie Hancock, eroico nel soffiare l’ebbrezza della vita all’interno dell’universo musicale dei suoi ottoni, e, ultimo, ma non per importanza, con Boyd Tinsley. La voce del violino è voce quasi umana e sa di pianto: Boyd ha un armamentario ben fornito, acustico ed elettrico, un vero jolly a seconda della canzone eseguita e riesce davvero a far vibrare le corde dell’anima con quelle del suo violino.
Quel capolavoro di Under the Table and Dreaming
Under the Table and Dreamingvede la luce appena dopo una tragedia che si ripercuote nei testi e nella scelta degli arrangiamenti: Anne, la sorella maggiore di Dave,viene uccisa in Sudafrica dal marito, il quale poi si suicida. Rifugiarsi in studio a comporre e registrare brani sarà la terapia al dolore straziante. Alle sessioni si aggrega Tim Reynolds, storico partner acustico di Matthews e in futuro altro membro ufficiale della DMB, e la decisione di fargli suonare le stesse parti di chitarra, che verranno poi raddoppiate, in modo di avere la sensazione di ascoltarne quattro, contribuisce a delineare un sound stratificato, carico di pathos e dall’atmosfera struggente, con le dodici tracce che si snodano autorevolmente tra motivi up e midtempo, senza dimenticare la poesia e la dolcezza di alcune ballate.
Dave & Tim. Fonte: Pagina ufficiale della DMB su Facebook
L’opener “The Best of What’s Around”e il singolo “What Would You Say” indirizzano in maniera perfetta le tematiche liriche e musicali dell’opera. Accanto a un incedere ritmato e allo stesso modo rilassato dei brani, come se Gracelanddi Paul Simon e Harvestdi Neil Young si fossero miscelati, affiorano testi celebranti l’urgenza del vivere al meglio il presente, allontanando dalla mente le pene, la mancanza di libertà e il timor mortis che ci affliggono, “Possiamo farcela a superare qualunque cosa ci laceri, qualsiasi cosa ci trattenga. E se non si può fare nulla faremo il meglio di quello che c’è in giro”, e ancora, “E tu sei venuto a ruzzolare dopo, a causa del peccato originale. Strappa via le lacrime, hai consumato una speranza di anni felici, e forse potresti scoprire che una vita intera ti è passata accanto. Cosa diresti?”
“What Would You Say” rimane una delle canzoni più famose, resa altamente intrigante dall’armonica blues di John Popper, special guest dell’album, e gode di massiccio airplay anche in Italia, grazie a Videomusic. Viene spesso suonata dal vivo e rappresenta il motivo ideale per chi volesse rendersi conto dello stile della DMB, che attinge dal roots rock per deragliare in territori jazz fusion con accenti funk e folk e poi tornare sulla strada della “normalità” con un tocco di pop, il tutto con sfacciata naturalezza. Istintiva, accattivante e liberatoria nell’urlo: “What Would You Say?”, arricchito dai cori dei tecnici e dello staff in studio di registrazione, azzeccata per precedere una ballata di diverso, ma altrettanto notevole impatto, la “bella e impossibile” “Satellite”, ermetica disquisizione su amore e potere, basata inizialmente su un’innocua filastrocca infantile, ed evolutasi in un collage enigmatico di frasi, ove l’immagine visiva del satellite diventa una sorta di inquietante Grande Fratello che ci osserva e controlla.
Di tutt’altra pasta la sofferta “Rhyme and Reason”, la cui trama si riconduce all’atroce dolore vissuto da Dave Matthews e lascia poca speranza al protagonista del brano, poiché solo la morte, dopo essersi buttato nei fugaci appagamenti dell’alcool e della droga, può porre fine alla sua disperazione. Si può notare un interessante collegamento di argomentazioni con un altro cavallo di battaglia all’interno della raccolta, la poliedrica “Jimi Thing”, una composizione che potrebbe uscire dalla penna di Stephen Stills e Prince, se mai si fossero seduti a tavolino pensando di scrivere qualcosa insieme. Ebbene, pur senza la tragicità di “Rhyme and Reason”, e con maggiore ironia, anche “Jimi Thing” inneggia ai piaceri e ai “vizi” (in particolare al sesso e alla canna di marijuana) come rimedio, quantunque effimero e momentaneo, per arginare la malinconia.
«Under the Table and Dreaming è pressoché inclassificabile, la Dave Matthews Band suona come quattro o cinque gruppi in uno.» Estratto dalla recensione di Paul Evans, Rolling Stone.
La critica specializzata si dichiara piacevolmente spiazzata dalla duttilità dei “ragazzi”. Ottimi giudizi ed eccellenti vendite innalzano l’asticella dell’ensemble, e, in sincerità, non si può che dar ragione pure adesso, oramai trent’anni dopo, all’analisi di Evans. Basta ascoltare i cambi di tempo di “Typical Situation”, ispirata dalla poesia A Prayer in the Pentagon dell’autore sudafricano Robert Dederick, una delle gemme dell’album dove si pone un parallelo tra la terribile segregazione dell’Apartheid e quella del “diverso”, che se non accetta l’omologazione della società si trova costretto all’oblio, alla fuga senza speranza. Ma l’esempio più eclatante è sicuramente “Warehouse”, un’irresistibile contaminazione di stili e generi, un viaggio a più fermate in ambienti inusuali in cui il rock sperimenta una storia d’amore con il cha cha cha. Imperdibile! Anche “Dancing Nancies”, altro pezzo forte dal vivo, è una allegra miscela di suoni e umori singolari, a contrastare invece un testo oscuro e ambiguo, come spesso piace fare a Dave, che riprende la filosofia del carpe diem, l’urgenza di vivere al meglio il presente cercando di focalizzarsi su ciò che è la propria autentica identità.
E qui si ritorna a uno dei leit motiv presenti nella raccolta: godere delle piccole cose nella vita, perché un giorno ci si renderà conto che erano quelle più importanti, come quando, da bambini, ci si rifugiava “sotto il tavolo per sognare”, riprendendo il titolo dell’opera, e si giocava gioiosi sentendosi protetti. “Ants Marching”è un brano celebre e indelebile, con quel tonitruante inizio a colpi di batteria, quel riff di violino doppiato dal sassofono, prima del frastagliato arrivo di basso e chitarra acustica, subito addolcito da un sax delicato, che per qualche secondo si stacca dal fraseggio principale e poi riprende il cammino congiunto. Fa immaginare davvero un’ipotetica marcia delle formiche e al suo interno vi è appunto la frase “under the table and dreaming”, con un invito a cancellare la monotonia dall’esistenza, ritornare fanciulli e lasciarsi guidare dal cuore, evitando di ripetere senza sosta le stesse cose ogni giorno, come uno sciame di insetti che svolge quotidianamente il suo compito.
Facciamo parte di una società in cui è radicata la cultura del dopo, dell’attesa vista solo come una stanza temporanea, anticamera di una felicità che deve ancora arrivare, se mai giungerà; Dave Matthews si ribella a questa concezione con il culto del presente, bisogna semplicemente cogliere l’attimo e sfruttare una situazione che non si materializzerà più. Non devono affiorare i rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato, pertanto l’autore invita a considerare la bellezza e l’urgenza dell’istante, e l’aiuto di una canzone, o di qualcuno che faccia riflettere su tali faccende, può rompere l’incantesimo del tendere inutilmente all’infinito, per la ricerca della letizia.
Rimangono ora da analizzare alcuni brani sicuramente di portata minore, che però cuciono in modo perfetto il vestito musicale dell’opera. “Lover Lay Down”fotografa romanticamente il momento di nostalgia di quando la persona amata non c’è e del bisogno di averla con sé. A un delicato inizio con arpeggio di chitarra e scossone di cimbali si aggiunge il sassofono di Leroy Moore creando un’atmosfera celestiale, cui segue l’inciso in crescendo. Più introspettiva e ombrosa risulta “Pay for What You Get”, amara constatazione sul fatto che a volte il prezzo da pagare per realizzare i propri desideri sia molto alto. Il disco si chiude con “#34”, delicato strumentale precedentemente dotato di liriche e ora inciso lasciando solo il fascino della melodia. Si tratta della dodicesima traccia e sul CD ne vengono inserite ventidue vuote, di pochi secondi, in modo che sul lettore sia davvero la trentaquattresima.
Un gruppo dalle risorse infinite
«Il cambiamento è come una vacanza. Voglio riempire la mia vita di esperienze insolite e di sfide da accettare, nella maniera più allegra e disperata possibile.» Dave Matthews, frasi tratte da The DMBook, Corsina Andriano.
Un album ancora bellissimo, che coincide con l’esordio per una major e catapulta la Dave Matthews Band verso il successo anche oltre America. Il viaggio musicale del gruppo si è colorato di diverse sfumature durante gli anni e l’intensa attività dal vivo lo ha consacrato come uno dei migliori live act, ma ogni singola canzone di questo disco rimane imprescindibile, con una melodia senza tempo e una storia da raccontare.
Il gruppo nella formazione odierna. Fonte: Milano Today
La Dave Matthews Band, lanciata dal successo internazionale diUnder the Table and Dreaming, sperimenta in tutta la sua carriera un continuo turbinio di cambiamenti. Se i successivi bellissimi Crash(1996)e Before These Crowded Streets(1998) ricalcano le trame musicali precedenti, aggiungendo comunque nuove idee nelle sonorità e nei testi, Everydaye Busted Stuff, realizzati agli albori del nuovo secolo, insieme a Stand Up(2005), sono una rivoluzione, con massicce dosi di chitarra elettrica e tastiere. L’attività live permane intensissima e imprescindibile, con show mozzafiato (numerosi in seguito realizzati su CD nella serie Live Trax e alcuni immortalati pure in DVD) in svariate location negli States, tra cui i mitici anfiteatri Red Rocks e Gorge, con quest’ultimo divenuto consuetudine e raduno per i fan di tutto il mondo. La tragica morte di Leroy, in seguito ai postumi di un incidente con un “trattorino” ATV sembra tratteggiare la fine del sodalizio, ma il definitivo arrivo in pianta stabile di Tim Reynolds e l’entrata in formazione degli estrosi Jeff Coffin al sax e fiati varie Rashawn Ross alla tromba ridanno linfa alla band, che pubblica il magistrale Big Whiskey & the GrooGrux King nel 2009, conquista l’Europa e l’Italia con spettacoli fenomenali. Tre anni più tardi esce il sottovalutato, ma ricco di spunti Away from the World, ultimo progetto con Boyd Tinsley, tristemente allontanato per una storia di abusi sessuali. Come Tomorrow (2018) si dimostra un po’ sfuocato, forse anche a causa dei cambi nell’organico, che però si rimpingua in quel frangente con il talentuoso Buddy Strong, vulcanico tastierista, amante del jazz moderno e con un debole per il rap.
La saga della DMB, così, è tutt’altro che ai titoli di coda, con una valanga di concerti a testare una ritrovata forma e un recente capitolo in studio, Walk Around the Moon, pronto a dispiegarsi e rivelare tutte le sue sfaccettature nelle date live di una band mai doma, sempre pronta a mettersi in gioco grazie alla forza della sua storia e dei suoi componenti.