C’è un filo rosso che unisce le più recenti composizioni di Slowhand alle sue primissime canzoni? In questo articolo, cui ne seguiranno altri, Alessandro Vailati ci accompagna in un appassionante viaggio nella produzione di Clapton, mostrandoci come il suo songwriting in fondo attinga da sempre allo stesso “cuore” e alle medesime esigenze espressive. È un lato spesso trascurato di Eric che, insieme al chitarrista e all’interprete, lo rende un artista da cui non si smette mai di attingere ispirazione.
Il cuore di Eric Clapton (1970-1985)
“Voglio esprimere il mio dolore in musica, non voglio bloccarlo, voglio parlare ad altri che stanno male, perché sappiano che non sono soli.” Eric Clapton, dal suo diario, Ottobre 1984. Tratto dall’Autobiografia, 2007
“Il 1991 fu un anno orribile, ma furono gettati alcuni semi importanti. Anche la musica aveva trovato una nuova energia. Sentivo il bisogno di suonare le canzoni scritte per mio figlio, e credevo davvero che potessero aiutare non solo me, ma chiunque avesse vissuto una perdita simile”. Tratto dall’autobiografia, 2007
“Il dolore che provi mi colpisce nel profondo. Sono proprio lì con te, ragazzo, non sarai mai solo.” Eric Clapton, Heart of a Child, singolo pubblicato a fine dicembre 2021
La musica come conforto. La musica che non crea divisione, piuttosto unisce le persone e fa a pezzi la barriera dell’incomprensione. Perché quando condividiamo, amiamo gli altri, ci rendiamo umili ai loro occhi. Per Eric Clapton questa filosofia nel concepire la musica è progredita nel tempo ed è maturata soprattutto quando, accanto al mondo parallelo in cui si è cimentato come interprete, ha composto canzoni in prima persona, facendo emergere anche le sue sofferenze, raccontando i dolori del vivere con una sincerità estrema. Tuttavia vi è sempre stato un forte contrasto insito in lui, e ciò forse è diventato la sua particolarità, tra un ruolo in primo piano dal punto di vista personale, e uno, in un certo senso complementare, altrettanto affascinante e coinvolgente, che infine è diventato prevalente, di ambasciatore, una specie di portavoce di un genere.
“Sono semplicemente un messaggero. Ho sempre sentito che quello fosse il mio compito, interpretare cose altrui, o perlomeno provarci. Così la gente che mi ascolta potrebbe incuriosirsi riguardo la storia di queste canzoni, scoprire da dove provengano…”
Clapton non ha mai abbandonato le sue origini. Nemmeno nei momenti più pop degli anni ottanta, oppure quando il country affiorava e si mescolava al rock nei settanta. Il blues e la voglia di trasmetterne le radici sono sempre emersi e lo hanno accompagnato nei momenti topici della carriera. Per tali motivi critica, pubblico e lui stesso, come si evince da queste dichiarazioni tratte dal periodo di realizzazione del tributo a J.J.Cale (2014), non si sono mai soffermati compiutamente sulle sue abilità compositive, fatto salvo per alcuni brani celebri come Layla, Hello Old Friend, Wonderful Tonight, Holy Mother, Old Love, Tears in Heaven e My Father’s Eyes.
Potremmo chiamarlo l’altro lato di Clapton e vorrei in tal senso analizzare alcune gemme dimenticate, poco considerate, che ha dispensato in tutta la carriera, valorizzando i motivi che gli hanno permesso di idearle, enfatizzando, appunto, il fatto che per concepirle occorressero sempre degli episodi importanti per smuovere il suo animo triste e inquieto.
Dopo le esperienze di gruppo con Yardbirds, Cream e Blind Faith in cui raramente affiora il talento di Slowhand nella stesura dei brani-a tal riguardo la meravigliosa Presence of the Lord rappresenta il primo riuscito tentativo-, già nell’omonimo esordio si denotano i primi sentori di un’acquisita sensibilità lirica, con la dolce Easy Now e l’arrembante Let It Rain. Una nuova estetica e uno stile personale di marcata ispirazione autobiografica, con utilizzo di metafore, sfoceranno nei Derek and the Dominos, in quel capolavoro di passione e amore non corrisposti intitolato Layla and Other Assorted Love Songs.
Da quel momento, ripercorrendo la discografia di Clapton appariranno perle autografe per lungo tempo, praticamente in ogni album, mosse dagli alti e bassi della vita, dal blues che è dentro in ognuno di noi, che un artista come lui è in grado di esplicitare, esprimendo i moti dell’animo umano con una canzone.
461 Ocean Boulevard oltre all’accorata implorazione Give Me Strength, ci regala un pezzo amatissimo dai fan, purtroppo, al momento, suonato live solo tra il 74 e il 75, per promozionare l’uscita di quell’LP. Si tratta di una ballata con reminiscenze country, la dolce e travagliata Let It Grow, il cui testo si apre in maniera emblematica: “Standing at the crossroads, trying to read the signs, to tell me which way I should go to find the answer…”. Effettivamente Eric è in cerca di una direzione musicale e di vita e questo tormento riappare in Better Make It Through Today, dal successivo There’s One In Every Crowd. Terminata la dipendenza dalle droghe, il ritorno del chitarrista in studio e sui palchi di tutto il mondo coincide con smisurate dosi d’alcool e una spiccata difficoltà, già presente dall’infanzia, a relazionarsi con il prossimo. L’assolo in questa canzone è di una drammaticità che spappola il cuore.
Il ricongiungimento con l’adorata Pattie Boyd, avvenuto in quel periodo, smorza l’inquietudine, che comunque riaffiora nei susseguenti dischi. Black Summer Rain , da No Reason to Cry, rappresenta probabilmente uno dei picchi della sua espressione creativa nei settanta. Ispirata da It Makes No Difference di The Band, viene scritta durante il lungo soggiorno a Paradise Island nelle Bahamas e rimarca l’infelicità di fondo dell’artista, anche in un frangente fortunato, ove successo e affetti avrebbero dovuto convogliarlo verso una serenità non solo illusoria.
“Non riuscivo a capire come potesse esser saltato fuori con un titolo così cupo, tetro e triste in un posto così idilliaco.” Pattie Boyd
Bastano le prime righe, “Dov’è il sole, il sole che era solito splendere su di me, dove se ne è andato, o è solo una memoria?” ad evidenziare, accanto ad una melodia candida e suadente, il malessere. La tristezza, la malinconia affiorano lungo tutta la ballata, resa struggente da una chitarra lancinante e un canto sincero e appassionato. “Come posso sfuggire a questa oscurità che mi sta inghiottendo?”, sono parole che trasudano blues, una profonda nostalgia; sottolineano rimpianto e irrequietezza, certificano un dolore anche quando esso non dovrebbe evidenziarsi apparentemente, all’esterno, ma nel profondo del cuore non è così, vi è depositata l’angoscia esistenziale. Nonostante il pezzo non sia tipicamente in 12 battute, attinge da quella tradizione, per confluire su binari country-rock.
Black Summer Rain
Il successivo Slowhand ci regala, oltre alle straordinarie hit incluse, la giocosa Next Time You See Here la robusta -amatissima dagli hardcore fans –The Core, composta in partnership con Marcy Levy, mentre in Backless, oltre alla vivace e divertente -in realtà in contrasto con il cinismo e triste realismo delle liriche- Watch Out for Lucy, è inserita Golden Ring, una delle poche composizioni citate come ben riuscite proprio dallo stesso autore, normalmente schivo nell’analizzare il suo songwriting. Il brano è una profonda e a tratti enigmatica riflessione sulla “relazione a tre” tra lui, Pattie e George Harrison, alimentata dalla fresca notizia del nuovo matrimonio di quest’ultimo. E che il motivo fosse davvero valido lo dimostra anche la scelta di includerlo, da parte di J.J. Cale -per la verità in una versione piuttosto insipida-, nella raccolta di “rarità” Rewind. Risulta realizzata in quest’epoca, anche se vedrà la luce sono nel ’96 grazie al cofanetto Crossroads 2, un’altra ballata malinconica, meravigliosamente abbracciata da un dobro e poi solcata da un guitar solo strappalacrime, To Make Somebody Happy, che getta un’esile speranza, riguardo a un futuro meno tormentato, nel finale: “Questo fiume è dannatamente difficile da attraversare per me, ma non c’è più niente da nascondere, non sono un nuotatore, tuttavia non mi arrenderò finché non raggiungerò l’altra sponda.”
L’inizio degli eighties è condizionato da seri problemi di salute di Eric, che non gli consentono di promuovere al meglio uno dei suoi migliori lavori, il sottovalutato Another Ticket, colmo di interessanti pezzi autografi. I Can’t Stand It, indovinato rock blues cantato superbamente,probabilmente è il più famoso, ma pure l’intensità della title track, perfettamente calibrata tra liriche introspettive e una melodia dolce ed avvolgente, colpisce il cuore. Le tastiere del compianto Gary Brooker e del mitico Chris Stainton disegnano atmosfere orchestrali, mentre il chitarrista porge su un rilassato riff una riflessione dolce amara sul tempo che scorre inesorabile, spesso portatore di illusioni e delusioni; permane, però, sempre uno spiraglio, “un altro biglietto” per effettuare un altro giro di corsa, avere comunque un’altra chance nella vita: ”Perché non può rimanere così per sempre? Perché deve sempre cambiare?…Tutte le volte che pensi di aver percorso il tuo cammino sembra tu debba salire su un altro cavallo, tutte le volte che pensi di essere vicino alla fine, ti giri e trovi un altro biglietto. O Amor mio, il tempo sta finendo…”. E pensare che tale profondità sembra sia stata ispirata da un pizzico di giocosità, per sbeffeggiare un amico continuamente alla ricerca di “un altro biglietto” per i suoi concerti!
Another Ticket
Money and Cigarettes è il disco del rilancio, dopo il periodo in rehab. Clapton si sente comunque defraudato per il fatto di non poter più bere e ironicamente intitola il lavoro citando le uniche cose rimaste in suo possesso. The Shape You’re In è un potente rockettone -impreziosito dal duetto chitarristico finale con Albert Lee–, che cita i problemi alcolici ora sopraggiunti in Pattie, mentre Pretty Girl è una appassionata ode nei suoi confronti, la vera Wonderful Tonight dal punto di vista sentimentale, “Il mio amore mi porterà sempre a casa, mia bella ragazza.”
“Devo uscire da me stesso, ho ancora qualcosa da dire. Perché non andrò più giù. No, non ho intenzione di andare più giù.” Ain’t Going Down, 1983
Sono però le parole e l’assatanata musica di Ain’t Going Down a fare breccia. Con la solita sincerità e senza giri di parole Eric si rimette in pista e, pur nella difficoltà post punk dei middle eighties, accetta anche di reinventarsi, con qualche compromesso.
Il rinnovo delle sonorità si evidenzia con Behind the Sun, grazie alla produzione di Phil Collins e all’accettazione di una parte di materiale più commerciale, proposto dalla casa discografica. I brani maggiormente toccanti, legati alla crisi della relazione con la moglie permangono comunque quelli usciti dalla sua penna: si parte subito forte con la scintillante opener She’s Waiting, trafigge l’anima il tonitruante blues moderno di Same Old Blues, e lascia senza respiro la toccante resa finale della title song. Never Make You Cry stupisce per le delicate armonie e l’utilizzo della chitarra attraverso un synth. Due rimangono le gemme indiscusse e spesso dimenticate: la dolce ballata It All Depends, impreziosita da un riff accattivante e dai bonghi di Ray Cooper, e uno dei capolavori assoluti di Slowhand a livello di pathos e assoli chitarristici, la sanguinosa Just Like a Prisoner, potente e lancinante come una lama che affonda il suo colpo ancora dritto nel cuore. Se con It All Depends e Never Make You Cry affiora ancora la passione, l’amore, ora sopraggiunge un modo diverso per esorcizzare la crisi coniugale, è il momento dello sfogo e per Eric la musica diventa riscatto e salvezza. “Come un prigioniero, che non distingue il giusto dallo sbagliato… Ed ecco perché devono cadere così tante lacrime…Sì, ecco perché non capirai/capirete mai ciò che provo”, canta in un’agonizzante accettazione di essere alla fine di tutto. E non si trattava di uno scherzo, visto che proprio in quel periodo gli eccessi di alcool e droga -cocaina- lo spingono sempre più nel baratro della dipendenza istigandolo al suicidio. Se Pete Townshend fu centrale nel toglierlo dall’orlo del precipizio nel ’73, ora è il turno dell’amico Roger Waters che, con una serie di telefonate lo conforta e lo tira fuori dai guai. Destino…
Just Like a Prisoner
Termina qui il primo episodio di questa analisi. A volte, ciò che il destino concede poi lo rivuole indietro con gli interessi. Negli anni successivi Eric perderà la sola vera ragione di vita, ma, ancora una volta grazie alla musica, effettuerà un viaggio alla scoperta del sé più profondo, quello di chi ha abbracciato il dolore, l’ha accettato, l’ha plasmato. E l’ha trasformato in bellezza. Questo processo, iniziato in solitudine, diventerà patrimonio di tutti, per merito di una manciata di canzoni meravigliose. La condivisione del dolore, un abbraccio universale. Ecco che dolcemente risuonano ancora quelle parole.
“Voglio esprimere il mio dolore in musica, non voglio bloccarlo, voglio parlare ad altri che stanno male, perché sappiano che non sono soli.”
Alla prossima puntata!
Alessandro Vailati
English version: The Heart of Eric Clapton #1
Grazie per aver scritto questo meraviglioso articolo sui pezzi scritti e troppe volte ignorati di Eric.
Lo si apprezza troppo per aver interpretato canzoni di altri e poco per come ha scritto.
Grazie davvero!
Roberto
E il numero uno ancora oggi.le sue canzoni migliori sono quelle all inizio della sua carriera.merita molta più riconoscenza .per me sarà sempre il massimo.di più non ce ne e non ce ne sara
Il mio plauso da Claptoniano della prima ora (1966) per questa analisi della sua vita e della sua musica. Complimenti veramente meritati
Meraviglioso aticolo. Ho conosciuto Eric Clapton che avevo 10 anni, figlio di un alcolista violento, ho trovato nella Sua chitarra nella sua musica, la mia stessa sofferenza, ma anche una luce lontana. Non è solo il mio eroe, è mio fratello maggiore lui c’è sempre stato! Lui e la sua musica mi hanno salvato la vita.
Ci sono momenti che mi basta sentire un suo brano un suo assolo per trovare una risposta. La canzone che mi tocca le corde e mi porta nel passato, rigandomi il viso di lacrime e Holy Mother