La musica dentro la vita e la vita dentro la musica: sono questi i tasti che Donato Zoppo (giornalista, scrittore e conduttore radiofonico) tocca nella sua scrittura elegante. E lo fa con raffinatezza, genialità e competenza. Solo lui poteva (re)inventare un libro – doppio – in cui scorrono parallele le storie di due bellissime canzoni, nate alla fine di due decenni indimenticabili del secolo scorso. Due decenni che, per svariati motivi, si intersecano vorticosamente, animati e accomunati da una smisurata forza artistica, come si evince dal titolo dell’opera: “Un nastro rosa a Abbey Road”. In che modo e perché, parafrasando le parole di uno dei brani capolavoro analizzati, “lo scopriremo solo leggendo”. L’intervista, realizzata a quattro mani con l’amico Alessandro Vailati (già autore di diversi articoli molto letti e da oggi ancor più stretto collaboratore del blog), è stata l’occasione per parlare di Beatles, George Harrison, Battisti e non solo…
Alberto Fortis nella sua Prefazione descrive il modo di comporre dei Beatles e del duo Battisti-Mogol come “impressionistico”, data la potenza visiva dei testi e delle atmosfere sonore. Cosa accomuna e cosa distingue due capolavori come Something e Con il nastro rosa, le due canzoni simbolo del periodo che analizzi?
Nel riferirsi a entrambe le canzoni e più in generale alla scrittura (di coppia, visto che anche nei Beatles la matrice è stata quasi sempre del binomio Lennon/McCartney), credo che Fortis abbia voluto sottolineare la coesione tra testi e musica, una compenetrazione che però non è mai stata strettissima, e che proprio per questo motivo ha lasciato spazio all’emersione di sensazioni da parte dell’ascoltatore. Alla potenza compositiva ha corrisposto quasi sempre un’altrettanto potente offerta immaginativa e impressionistica nei riguardi di chi ascolta. Un po’ come la radio, la migliore radio…
Detto questo, le due canzoni hanno in comune il contesto, in primo luogo. Entrambe sono nate agli sgoccioli di una lunga esperienza, la prima al termine del glorioso percorso beatlesiano nel 1969, la seconda alla fine del sodalizio mogolbattistiano dieci anni dopo. Non sono accomunate dalla connotazione di genere, visto che Something ha come ispirazione una sorta di soul ballad – con tanto di voce alla Ray Charles: è così che George l’aveva immaginata inizialmente – e il Nastro rosa è un pop-rock scattante e radiofonico con ampie porzioni strumentali. Mi piace cogliere un piccolo, forse velato, elemento in comune: l’incertezza sulla presenza del sentimento. Alla domanda “You’re asking me will my love grow”, George risponde in modo dolcemente lapidario: “I don’t know”. Alla domanda “Chissà che sarà di noi?”, Lucio (o meglio Mogol…) risponde con un sereno “Lo scopriremo solo vivendo”, che non a caso è anche il verso di una canzone italiana più citato nel quotidiano. La reazione dinanzi al sentimento che emerge è di sereno rinvio alla vita.
Ti sei concentrato sulla fase crepuscolare di due fenomeni socio-culturali di grande portata come i Beatles e la collaborazione Battisti-Mogol. All things must pass, cantava il buon George, uno dei più smaniosi di aprirsi uno spazio artistico proprio dopo quell’esperienza. Che idea ti sei fatto dei motivi di fondo della rottura tra questi artisti e della paradossale vitalità di questa “fine del sogno”?
La fine dei due sodalizi, complessi come complessa è stata la dinamica delle rispettive separazioni, credo sia accomunata dall’esigenza artistica di sperimentare in proprio. Da parte di George la cosa è acclarata, se ce ne fosse ancora bisogno basterebbe osservare espressioni, parole e prossemica nel recente Get Back per capire quanto ormai la famiglia Beatles gli andasse stretta. Ma era anche fisiologico, non era ancora trentenne, avvertiva l’esigenza di smarcarsi per misurarsi una volta per tutte con la sua scrittura. Per Battisti, benché affrontata nel più assoluto riserbo, la scissione da Mogol era motivata dalla stessa aspirazione: affrancarsi da testi perfetti per i suoi anni ’60 e ’70 ma inadatti ai nuovi orizzonti che aveva in mente, anzi che credo avesse già ampiamente avvistato. Il passaggio iniziatico di E già e soprattutto i cinque dischi con Pasquale Panella lo hanno provato senza tema di smentita.
Con la fine dei Beatles e della creatura Mogolbattisti è terminato un sogno: gli anni ’70 sono cominciati orfani, senza la potenza dei Beatles nonostante una prolifica discografia dei quattro in proprio; gli anni ’80 italiani sono cominciati senza la storica coppia, e se Battisti e Panella non hanno raggiunto risultati commerciali paragonabili ai precedenti, artisticamente parlando Mogol non ha espresso il meglio di sé con Cocciante, Mango o Gianni Bella.
“Con Il Nastro Rosa”: l’ultima canzone del disco, che recita la fine di un sodalizio, profuma di eterno. Musica e testo risultano inscindibili, a differenza del rapporto tra Mogol e Battisti, giunto al termine proprio con questa esperienza. Come è stato possibile per loro confezionare un brano di tale intensità quando ormai si stavano separando artisticamente?
È vero che la creazione artistica non solitaria necessita di un minimo di empatia, ma è altrettanto vero che una buona dose di mestiere, la conoscenza della tecnica e la consapevolezza delle proprie capacità e di quelle del proprio partner sono più che sufficienti per scrivere una canzone dignitosa. Nel caso di Lucio e Giulio Rapetti la lenta separazione andava avanti già da qualche anno, come racconta il primo nella sua storica ultima intervista: erano finiti i tempi in cui i due vivevano insieme, andavano a cavallo, a caccia, in viaggio. Si vedevano una volta all’anno, giù la musica, giù le parole, la canzone era fatta e finita in breve tempo. Il resto poi restava nelle mani di Battisti, che a Londra con i suoi musicisti confezionava il tutto nel modo migliore.
Dagli inizi del loro sodalizio, dal 1965/66 dunque, fino ad Anima latina grosso modo, Lucio e Giulio erano in simbiosi, era nata un’amicizia insieme alla collaborazione professionale; dopo il 1975 il connubio cominciò ad allentarsi. Tuttavia restava fermo il modulo: Battisti faceva ascoltare la musica a Mogol, questi in tempo reale o abbastanza rapidamente scriveva il testo tirandolo fuori dalla musica; Lucio interiorizzava, assorbiva, interpretava, insomma faceva suo il testo. Il passaggio seguente, in studio, vedeva Lucio all’azione da solo, con musicisti, arrangiatori, produttori: Mogol in studio continuava a non andare. La pratica era dunque consolidata, anche in regime di imminente separazione. Mestiere, in soldoni. Ma mestiere arricchito, rafforzato, vitalizzato da una profonda sensibilità, soprattutto da parte di Lucio, che ha avuto una straordinaria coerenza artistica, ricordiamolo sempre.
Gli steccati di genere e stile inaridiscono la creatività e Lucio era sempre aperto alle novità e alle collaborazioni, non amava ripetersi. Quanto ha fatto la differenza la presenza di musicisti del calibro di Palmer, Westley, Elliott e Markee?
Come detto prima, la fine della scrittura consolidata tra Lucio e Giulio non significava fine della creazione di ottime canzoni: Lucio si affidava a fior di professionisti, dialogava con loro alla pari, aveva le idee chiarissime sulla regia, sulla direzione, sugli esiti. È stato un formidabile uomo di musica, un musicista, ancor prima che un autore: ciò ha determinato un’attenzione massima al contributo dei colleghi, a prescindere dalla nazionalità e dall’estrazione. Con gli inglesi andava particolarmente d’accordo, non a caso ha lavorato ottimamente con Geoff Westley, di cui aveva la massima fiducia. Lo stesso Geoff, uomo di studio attento e al tempo stesso generoso, aveva coinvolto session man affidabili come Phil Palmer, Stuart Elliott e tanti altri, con cui tra l’altro ho avuto l’onore di dialogare. Con il nastro rosa è figlia di una lunga session serale, e fu completata da Battisti al mattino, appena entrato in studio per cantare. Geoff dunque fece da coordinatore, e solo un uomo di fiducia avrebbe potuto svolgere questo compito.
Il tuo libro è ricco di aneddoti e descrive perfettamente la concezione di Musica e Vita per Battisti: “Un contrasto di forze contrastanti”. Questa definizione rispecchia in modo inequivocabile anche “Con il Nastro Rosa”, dalle liriche cariche di immagini criptiche e combinazioni verbali alla irresistibile ipnotica melodia. La versione dell’album tocca i cinque minuti e trenta secondi, una rarità e una “divergenza” per una “canzonetta con velleità pop da classifica”…
Battisti ha avuto un grande pregio, anzi grandissimo se visto dal versante della composizione pop: ha esplorato tutti gli spazi della forma-canzone, penso alle introduzioni, oppure alle code; ha lavorato su un ridotto materiale – pochi accordi, basta pensare a Dio mio no, e ancora di più alla celeberrima Canzone del sole – giocando sapientemente con rivolti, con arrangiamenti efficaci e azzeccati, con contributi strumentali di indiscutibile qualità.
L’ottimo Paolo Talanca ha usato la dicitura “canzone pop d’autore” per Baglioni, ma credo che sia possibile attribuirla anche alle migliori cose mogolbattistiane. Qualche titolo? I giardini di marzo, Anche per te, Comunque bella, La collina dei ciliegi. E inevitabilmente Con il nastro rosa, che porta il pop-rock italiano a un livello internazionale, non tanto per i nomi dei musicisti quanto per il respiro, la maturità e la simbiosi definitiva tra i due autori. È l’ultimo storico esempio di canzone pensata e costruita per trionfare in classifica ma con intelligenza, gusto, sapienza. Non seduce l’ascoltatore, non lo inganna, ma gli tende una mano e lo accompagna in un mondo. Non è da tutti.
Con “Something” analizzi il 1969 dei Beatles, la conclusione di un’epoca. E lo stesso accade, e infatti fa parte dello stesso libro, in “Con Il Nastro Rosa”, dove parli, metaforicamente, pure della fine di un sogno. Come si può paragonare la realtà musicale d’oggi a questo patrimonio storico?
La contemporaneità è un pulviscolo, un trionfo del frammento, andrà debitamente storicizzata, poi letta, analizzata e valutata. Anche musicalmente. Credo che oggi Beatles e Battisti non solo non potrebbero nascere – quale casa discografica metterebbe a disposizione studi, risorse, arrangiatori, produttori e tecnici per fare crescere e per lanciare un artista? – ma se anche fosse sarebbero dispersi, non avrebbero possibilità di essere ascoltati, soppesati, assimilati. Ma questo vale anche per il cinema, la letteratura, l’arte grafica etc. Dall’altra parte, mi piace notare che per fortuna un minimo di continuità c’è, soprattutto sul versante beatlesiano, e in questo giova molto la comunicazione attiva – dai social alle operazioni mediatiche, alle ristampe etc. – da parte di Paul, Ringo, Yoko (ma anche Sean e Julian) e Olivia. I più giovani sono frequentemente a contatto con l’eredità Beatles, hanno la possibilità di confrontarsi con la loro musica, vedono Paul che balla su TikTok o le storie di Ringo su Instagram e cose del genere. Gli eredi Battisti hanno una politica completamente diversa: è vero che le canzoni di Lucio si cantano e si canteranno, ma fino a quando? Il canzoniere con Panella non è sul digitale, il rischio oblio è imminente. La musica è un grande dono, ma è anche un giardino che va coltivato, curato, innaffiato, da parte dell’artista credo sia doveroso aggiornarsi ed esserci per preservare il suo lavoro e la sua memoria per il presente e il futuro, soprattutto oggi.
Sei ormai arrivato al terzo libro su Lucio Battisti, uno più sorprendente dell’altro, tutti davvero ricchi di informazioni, intensi, vissuti. Sembra che una parte di te sia andata via con loro… è lecito aspettarsi una quarta opera?
Sì, è più che lecito! Ho voglia di cimentarmi nuovamente in uno studio battistiano, anche perché c’è tanto da studiare. Come spesso racconto, il mio imprinting con la sua musica è avvenuto nel 1988 con L’apparenza, così mi piacerebbe immergermi nell’epoca post-Mogol. I famosi dischi bianchi hanno tanto da dire: basta l’ascolto, avranno sicuramente pensato Lucio e Panella, e hanno anche ragione. Tuttavia è altrettanto legittimo che la scrittura e la narrazione dicano la loro, soprattutto su quest’area così oscura ed enigmatica.
Infine, un’ultima domanda: dal tuo punto d’osservazione come valuti la fioritura dell’editoria musicale in Italia?
È una faccenda complessa, anche perché non si può disgiungere l’aspetto prettamente editoriale dal mondo dei lettori e anche quello dei media che fanno tra cinghia di trasmissione tra editori e lettori. Ogni tanto sbircio le bookblogger su Instagram e mi chiedo se sia questo il modo migliore – per migliore intendo rispettoso verso chi scrive e chi legge – di promuovere un libro, ormai immerso in immagini sgargianti dunque rumorose dunque dispersive, magari restituito con citazioni estrapolate ma raramente letto, commentato, vivisezionato, demolito se necessario. Social a parte, credo che siamo in una fase calante, persino fisiologica visto che restano pochi spazi ancora da studiare. Ricordo che il mio primo libro, pubblicato da Editori Riuniti nel 2005, usciva in un periodo in cui non c’era ancora molto, o perlomeno non c’era una mole di pubblicazioni come quella odierna. Negli ultimi anni tra editori dedicati (penso a Vololibero, Crac, Tsunami, Diarkos; peccato che Aereostella e Zona abbiano drasticamente ridotto le uscite), l’avvento delle collane Mimesis, Odoya e Hoepli, la costanza di Arcana, la saggistica musicale abbia trovato una collocazione notevole nelle librerie italiane. Quando passo negli store delle grandi stazioni, ad esempio, vedo che gli scaffali di testi musicali sono abbondanti, ben forniti, peccato però che un’ampia porzione sia composta da lavori compilativi, spesso un po’ troppo simili a Wikipedia, a volte prelevati direttamente dalle tesi di laurea degli autori. Consiglio un pamphlet prezioso di Luigi Mascheroni, pubblicato l’anno scorso da Oligo: Libri. Non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge). Penso che potrà chiarire le idee a molti.