Una delle cose più inattese e sorprendenti che ho scoperto scrivendo libri è che ti mettono in contatto con persone che, altrimenti, difficilmente avresti raggiunto. Ho conosciuto Luca Magnoli grazie ai suoi feedback su alcuni miei lavori, scoprendo non solo il comune interesse per alcuni musicisti straordinari come Jimi Hendrix, Eric Clapton e George Harrison, ma soprattutto un approccio alla musica che mi ha immediatamente conquistato. Leggendo questa intervista scoprirete perché…
Luca, partiamo dalla tua passione per la musica e per il basso…
Innanzitutto grazie per questa opportunità che dai a un semplice appassionato, e sì anche collezionista – forse un po’ per mania – e musicista di professione ormai da anni, di parlare di quello che ci accomuna, ovvero la grande passione per la musica.
Tutto nasce nel 1969/70, a Milano. In casa mia si respirava sì musica, ma in realtà era quel poco che arrivava in Italia all’epoca, compresa Canzonissima e programmi simili. Poi un giorno mio padre tornò a casa con un disco che regalò a mia madre: Abbey Road dei Beatles. Lo mettono su e io vengo immediatamente catturato dal suono iniziale, anche se non sapevo ancora nulla di basso, chitarra ecc. Sento la sonorità di Come Together e me ne innamoro subito.
Nel 1973 il primo acquisto di una chitarra classica, che però non mi entusiasmava perché volevo riprodurre quel suono lì, che nasce sulle prime corde basse. Poco dopo mi regalano un basso, un’imitazione di un Fender Jazz, e riesco finalmente a cominciare a trovare il sound che cercavo.
Da autodidatta, imparo a suonare basso e chitarra, poi tastiere, ma anche batteria, violino, sassofono… Tutto per passione. Ho scoperto di avere questa attitudine: la musica, suonare uno strumento, essere musicista è qualcosa di innato in me, che mi riesce con facilità.
Il grande amore rimane comunque il basso. E per i Beatles, una band di cui a fine anni Sessanta avevo visto qualche foto su un giornale e che mi emoziona profondamente anche oggi, essendo diventata la colonna sonora della mia vita. Da allora ho iniziato man mano ad acquistare le cose che riuscivo a trovare: alle scuole medie mi facevo regalare le audiocassette, poi la scoperta dell’LP apribile, con i testi, le immagini, un oggetto da gustare nel tempo. Ascoltavo un disco anche venti volte al giorno, studiandolo a memoria.
In un tempo in cui non esisteva Internet e forse c’era un solo programma televisivo di musica, qualcosa arrivava dalla radio, ma le informazioni si prendevano soprattutto dalla mitica rivista «Ciao 2001» e c’era un tam-tam fra tutti gli appassionati, oltre a qualche cugino o amico più grande che magari ti parlava dei Pink Floyd o dei King Crimson…
Come è nato poi l’interesse per il collezionismo musicale?
A quei tempi non esisteva un vero collezionismo musicale; compravi quello che ti piaceva, andavi nei negozi di dischi dove c’erano le cabine per ascoltare gli album. Tutto è iniziato negli anni Ottanta con le prime fiere in Italia, anche se a volte mi sembrava e mi sembra esagerato: quello che io avevo acquistato in negozio, e che magari era anche un fondo di magazzino ai tempi o delle prime stampe, dai Beatles agli Stones, ai Genesis, adesso viene venduto a cifre astronomiche…
Tutto ormai è considerato vintage, lo stesso dicasi per gli strumenti musicali. È un mercato fiorente, ma ho sempre cercato di non arrivare a cifre assurde.
La discografia dei Beatles è composta da un certo numero di dischi: la mia collezione arriva a circa 5000 pezzi, perché contiene ad esempio lo stesso disco con copertine diverse, oltre a bootleg, vinili e CD ufficiali e non…
Quali artisti ti hanno più influenzato all’inizio e quali continuano a ispirarti oggi?
Oltre ai Beatles, naturalmente, gli Stones, di cui ho sempre amato la ruvidezza del suono e l’alchimia particolare all’interno della band. Poi anche Pink Floyd, Genesis, Emerson, Lake & Palmer, tutto quel movimento oggi definito “progressive” ma che ai tempi era definito “pop inglese” o “d’avanguardia”. Altre band che mi hanno fatto girare la testa sono gli Who per la loro grinta, il modo di suonare del buon Pete Townshend, la pazzia estrema di Keith Moon e l’essere immobile ma così granitico di John Entwistle; poi i Led Zeppelin a cominciare da Physical Graffiti, ma anche tutto quello che è venuto prima e fino alla dipartita ahimè di John Bonham, che per me rimane il batterista rock per antonomasia.
Altre band che amo e colleziono: Jimi Hendrix sia nel periodo inglese che in quello americano, i Chicago con il loro sound così aggressivo con i fiati soprattutto nei primi album. Poi, da bassista amavo ed amo moltissimo lo stile e il suono di Peter Cetera.
Negli anni Ottanta ebbi la fortuna di andare al concerto dei Led Zeppelin a Zurigo. Ma tra i miei concerti di quegli anni ci sono anche The Who, Frank Zappa a Milano, gli Yes…
Sono sempre stato legato più al sound inglese che a quello americano, per quanto apprezzi molto band com Grateful Dead e Jefferson Airplane e tutto il movimento psichedelico e dell’area di San Francisco. Anche il mio stile nel suonare, nel comporre e nell’intendere la musica riflette maggiormente questa influenza inglese.
Entrando nel dettaglio della tua “Beatles collection”, come è nata, da quanto tempo la curi e quali ricerche hai seguito negli anni per arrivare a rarità e pezzi unici?
Come detto, tutto è iniziato con Abbey Road, poi da lì tutto il resto, compresi i 45 giri, i bootleg… Tra i pezzi rari potrei citare due versioni della famosa Butcher cover, la cosiddetta “copertina del macellaio”; ho anche un 45 giri quadruplo uscito per la Apple con un’intervista esclusiva ai Beatles. Molto l’ho comprato se non al momento dell’uscita poco dopo, in un periodo in cui si trovavano facilmente diverse cose.
Oggi il mondo del collezionismo è cambiato, anche grazie all’avvento di Internet e dei canali di acquisto online e dei siti di collezionisti, oltre ovviamente alle fiere dedicate: spesso però diventa una cosa fuori portata con prezzi esagerati rispetto a quindici/vent’anni fa.
Nella mia collezione possiedo anche foto firmate, autografi “veri” o presunti tali, oltre a moltissimi libri, tenendo conto che l’editoria musicale in Italia è cresciuta a partire dagli anni Novanta, mentre prima c’era molto poco.
Quali, tra gli album e i singoli dei Fab Four ma non solo, consideri i tuoi “dischi dell’anima”, come usi chiamarli sui tuoi canali social?
Inizierei con Abbey Road non solo per un discorso affettivo, dato che quel disco coincide in qualche modo con la mia scoperta della musica “rock”. È un disco completo in cui trovi tutto. Mi piace naturalmente moltissimo anche il White Album, Magical Mistery Tour con l’inserto che si poteva sfogliare… Fantastico! Poi moltissimo Revolver, perché per l’epoca in cui uscì è certamente un disco un secolo avanti agli altri, d’avanguardia, sia dal punto di vista delle composizioni che a livello sonoro.
Altri album per me fondamentali: Sticky Fingers dei Rolling Stones, il II dei Led Zeppelin, Band of Gypsys del grande Hendrix, Nursery Cryme dei Genesis, Tarkus di Emerson, Lake & Palmer, Ars Longa Vita Brevis dei Nice, Aoxomoxoa dei Grateful Dead, Hot Rats di Frank Zappa, Band on the Run di Paul McCartney solista, senza dimenticare If I Could Only Remember My Name di David Crosby che conteneva la “crema” dell’estate dell’amore.
Poi ci sono i Pink Floyd, altro grande amore musicale insieme ai Beatles: Animals, Wish You Were Here (acquistato quando uscì e che mi conquistò immediatamente cuore e anima), Atom Heart Mother…
Una curiosità personale: a quali composizioni di George Harrison sei particolarmente legato e di cui magari possiedi qualche edizione speciale?
In particolare prediligo quelle legate al suo periodo nei Beatles, e di nuovo torniamo ad Abbey Road con Something e Here Comes the Sun. Ma anche a Revolver con Taxman, senza dimenticare poi le sue sperimentazioni indiane e orientaleggianti che troviamo anche in Sgt. Pepper’s.
Anche di lui ho moltissimi pezzi da collezione, compresi bootleg, vinili, CD, anche di demo…
Qual è la tua valutazione complessiva della differente evoluzione dei quattro dopo lo scioglimento? Hai seguito con particolare curiosità e attenzione uno di loro?
A mio parere l’alchimia che si era creata tra i quattro insieme è stata così unica che i lavori successivi da solisti non hanno più raggiunto risultati analoghi. In loro vedo anche dei precursori del genere “indie”, anche per l’amore e la cura della musica “fatta in casa”.
Certo, sono usciti dischi molto interessanti, a cominciare da Lennon, anche se non mi è mai piaciuto molto il suono che usava, il cosiddetto Wall of Sound creato da Phil Spector.
Di Harrison certamente il triplo All Things Must Pass, con brani come Isn’t It a Pity, un pezzo bellissimo e che incarna proprio il suo stile, oltre a Beware of Darkness.
Ringo di Ringo Starr è un disco interessante e completo, anche per le collaborazioni con gli altri tre ex-Beatles.
McCartney, ad esempio con Ram, ha una sonorità che mi conquista e mi piace follemente. Poi sai, in lui c’è il basso, i Beatles, insomma tutto ciò a cui sono più legato. Dagli anni Ottanta fino ad oggi le sue produzioni mi hanno convinto meno.
Non a caso, nella mia collezione la produzione parte dal 1962/63 e arriva fino al 1979/80. Il meglio secondo me è stato fatto tra poco prima della metà dei Sessanta fino a metà anni Settanta. Sono praticamente 50 anni che ascolto musica, ma continuo a rimanere legato a quel suono e a quel mondo musicale e artistico. Gli anni Ottanta, con il predominio delle tastiere, hanno cambiato radicalmente anche il modo di registrare.
Oltre ai Beatles, anche Jimi Hendrix è uno dei tuoi artisti di riferimento, sempre in tema di collezionismo…
Sì, anche Jimi lo seguo con immenso interesse: alla fine dei Settanta andavo alla ricerca di tutte le cose anche oscure, pur nel poco che si riusciva a trovare rispetto ad oggi. Anche Electric Ladyland è un disco spaziale, avanti cent’anni. Ho dei pezzi anche rari, in una collezione di circa 500 pezzi hendrixiani. Sono i miei, anzi i nostri, eroi, e sono convinto che ci aiutano a vivere meglio…
Grande personaggio, mai dimenticato, anche se come chitarrista ho sempre preferito Eric Clapton, a proposito del quale ho letto il tuo libro divorandolo anche perché su di lui in Italia non si è mai scritto molto. Acquistavo cose su di lui all’estero durante qualche viaggio a Londra. Mi piaceva molto anche il suo look, e tra i suoi dischi specialmente quelli del periodo in cui aveva problemi di alcool e droga: forse sono tra i suoi più belli.
A proposito di power-trio, concludiamo parlando del tuo gruppo, il 3ioGino…
Cream, Jimi Hendrix Experience… il riferimento è quello. Circa 7 anni fa anch’io con i miei compagni abbiamo creato un trio, con alla chitarra e alla voce – appunto – Gino Lucietto, Roberto Rimo Rimoldi alla batteria e io al basso. Rivisitiamo in chiave personale i pezzi che ci piacciono di più, soprattutto il rock anni Sessanta/Settanta, dai Beatles agli Stones, ai Pink Floyd… Lo facciamo alla nostra maniera, a volte anche ironica, e vediamo che questo piace al pubblico che ci viene a sentire: da anni ormai suoniamo 2/3 volte a settimana in diversi locali.
È una grande fortuna suonare la musica che ti piace, e lo dico avendo in passato anche lavorato come “mestierante” della musica, anche in televisione.
Durante il periodo di lockdown ho scritto testi, musiche e arrangiamenti in collaborazione con Gino, e pochi giorni fa abbiamo finito di registrare il materiale per un nuovo album che si chiamerà proprio Rockdown, dedicato a quello che abbiamo passato ma con un messaggio di speranza… Uscirà presto, è musica Rock con la r maiuscola, fatta col cuore, in cui suono basso e tastiere.
La soddisfazione maggiore degli ultimi anni è stata proprio creare questa band, che unisce le esperienze di ognuno di noi e che non solo piace, ma basandosi sul fatto che ci divertiamo noi per primi trasmette divertimento anche alle persone che vengono ad ascoltarci.
Nel corso degli anni hai avuto modo di incontrare, conoscere o suonare con artisti conosciuti in Italia o all’estero?
Nella mia carriera musicale ho avuto occasione di suonare con artisti italiani e stranieri; a volte, anche se non ami quel tipo di musica, essendo un mestiere ti trovi anche a farlo un po’ per forza.
Ho un ricordo bellissimo di quando venne Christine Lakeland, la moglie del povero e mai dimenticato J.J. Cale, in provincia di Brescia per una tournée veramente in sordina per pochi intimi ma alquanto soddisfacente.
Un altro concerto che ho nel cuore è con il caro amico Fabio Treves, che mi conosce da quando ero ragazzino, e Alex Gariazzo, fenomenale chitarrista: lui acustico, io con il contrabbasso e Fabio all’armonica a bocca, abbiamo tenuto un concerto alla Cattolica di Milano che ha avuto grandissimo successo, in un auditorium in cui non eravamo amplificati proprio come avveniva negli anni Venti/Trenta. Un ricordo indelebile, con i giovani studenti che apprezzarono la “musica del diavolo”: un’occasione unica per far conoscere molti artisti del passato spesso poco conosciuti, ma da cui tutto davvero è cominciato, quelli del blues del Delta del Mississippi. È stata una delle esperienze per me più belle.