Come detto nel precedente articolo, ho deciso di ospitare temporaneamente nel blog una piccola serie di articoli ravvicinati, ognuno dedicato a una canzone di Harrison, con particolare riguardo a quelle che nel libro associo a riflessioni spirituali legate alla filosofia indiana ma non solo.
Dopo The Inner Light, è la volta di una delle composizioni harrisoniane che prediligo in assoluto: Beware of Darkness, contenuta nel monumentale All Things Must Pass del 1970, tutt’oggi considerato il miglior album solista di un ex membro dei Beatles.
Un brano costruito in maniera perfetta sotto il profilo armonico e melodico, scritto mentre George ospitava gli amici del Radha Krishna Temple. Forse anche per questo, dunque, intriso di considerazioni spirituali e filosofiche che ruotano attorno a un tema centrale: l’illusione cosmica, ciò che non è, per usare le parole scritte dall’ex Beatle nella sua autobiografia. O, per dirla usando un termine caro allo stesso Schopenhauer, Maya…
Approfondendo questo aspetto ho trovato un ponte di collegamento tra questa canzone e quella presa in considerazione nel precedente articolo: Within You Without You dallo storico album del 1967 Sgt. Pepper’s. George la compose ispirandosi alla sua ricerca e allo studio della millenaria filosofia e musica dell’India, fatta di scale e cicli ritmici particolari.
Oltre alla costruzione e alle sonorità orientali, però, alcuni versi di questo brano particolarissimo arrivano dritti alle orecchie e alla mente dell’ascoltatore. A me, in particolare, quando parla di quel muro di illusione dietro cui spesso ci nascondiamo e che non permette di intravedere la verità. “Are you one of them?”, “Sei uno di loro?”, ti arriva poi dritta in faccia la domanda, che ti inchioda ai tuoi passi, che esige una risposta.
Beware of Darkness riprende questo tema così incardinato nella visione del mondo indiana e lo approfondisce. Il testo invita infatti a guardarsi dalle tenebre che possono attanagliarci e inquinare la nostra vista interiore, ma mette in guardia anche contro altre pericolose insidie: i pensieri ossessivi, le persone futili, la tristezza che spesso si rivela una falsa messaggera. Poi quel verso, prima dell’assolo di chitarra: “Beware of Maya”…
Il termine sanscrito Maya, com’è noto, è una delle immagini più potenti che Schopenhauer riprese da quest’antichissima tradizione per chiarire una delle sue tesi fondamentali: la realtà materiale, fenomenica, è essenzialmente illusione, inganno, simulazione, parvenza. Sovrapposizione.
In questo mondo viviamo irrimediabilmente consegnati al “velo di Maya”, all’illusione, ma secondo il filosofo tedesco del Mondo come volontà e rappresentazione “quest’illusione è reale quanto la vita, il mondo stesso dei sensi, anzi è tutt’uno con essi: su di essa si fondano tutti i nostri desideri e brame, che a loro volta non sono che l’espressione della vita come la vita non è che l’espressione dell’illusione; in quanto viviamo, vogliamo vivere, siamo uomini, l’illusione è verità” (A. Schopenhauer, Il mio Oriente, Adelphi, Milano 2007, p. 77).
George filtrò la sua presa d’atto dell’esistenza di Maya leggendo e rileggendo Autobiografia di uno yogi di Paramahansa Yogananda. Qui Maya è l’illusione cosmica che presenta di continuo divisioni e dualità e la cui bilancia equilibra sempre ogni gioia con un dolore, disorientando la mente dell’uomo che, come scrive lo stesso Yogananda, è il vero campo di battaglia quando si tratta di liberazione.
Basta pensare alla lotta estenuante che ognuno di noi a suo modo conduce contro i soldati delle proprie bramosie, ambizioni e presunzioni, e a quanto sia difficile anche solo provare a frantumare le proprie illusioni.
Eppure, è soltanto al di là dei veli segreti e tenebrosi di Maya – il muro dell’illusione – che si può intravedere una via di liberazione dall’esilio in cui altrimenti siamo destinati a trascorrere gran parte dell’esistenza.
Come insegna la filosofia Vedanta e in particolare l’Advaita, il vero passo da compiere, allora, è intuire che questa dualità non è la vera realtà, ma solo il velo che la ricopre.
Esiste quindi una forma di risveglio dal sogno ingannatore, una realtà perenne oltre il velo dell’impermanenza? C’è un modo per squarciare questo velo e gettare uno sguardo al di là dell’illusione, della confusione, dell’oscurità – tutte caratteristiche di Maya?
Forse era a questo che alludeva George in Beware of Darkness e Within You Without You, nella cui strofa finale si nasconde una precisa chiave d’accesso:
«And the time will come when you see we’re all one»
(E verrà il tempo in cui capirai che noi tutti siamo un’unica cosa),
«and life flows on within you and without you»
(e la vita scorre dentro di te e senza di te).
Prima di far propria questa intuizione, però, occorre cercare di vedere al di là del proprio ego, del proprio limitante Io. Ma di questo parleremo nel prossimo articolo riascoltando I Me Mine…