George Harrison #1
Nella recente intervista per Loudd (qui in versione integrale), Alessandro Vailati, che a questo blog ha regalato articoli davvero interessanti e originali, mi ha portato a ripercorrere la genesi dei libri usciti sinora fino al più recente su Harrison. Questa sua domanda in particolare mi ha colpito e fatto riflettere molto:
Sbaglio nel vedere “La via mistica di George Harrison. Musica, Maya, risveglio” come la prosecuzione, molto intima e personale, del cammino iniziato con il tuo primo libro su Clapton? Ti sei talmente immedesimato nei personaggi che è come se avessi vissuto con loro, affrontando anche le asperità e ora ne sei uscito sicuramente diverso, arricchito.
Ho risposto dicendo che gli artisti di cui mi sono occupato, pur così diversi tra loro, mi hanno attratto per determinati aspetti del loro modo di pensare, di vivere e di fare arte, ma al tempo stesso mi hanno dato l’opportunità di sondare parte di quella polivocità che ci caratterizza in quanto esseri umani. Per me si è trattato di un processo di avvicinamento e di conoscenza.
In questo senso è vero che fare ricerche su questi musicisti, immedesimarmi nei loro vissuti o seguire le tracce delle loro intuizioni mi ha straordinariamente arricchito. Più in generale, ho avuto modo di sperimentare in prima persona come musica e filosofia possano essere davvero dei percorsi di liberazione: prima di tutto da noi stessi, dai nostri fardelli. Aprono confini, dischiudono varchi e liberano portandoci a scoprire nuovi modi di vedere le cose e la nostra stessa identità.
Tutto questo lo percepisco ancor più vivo adesso che il libro su Harrison è uscito e mi sento in qualche modo “orfano” di una ricerca così stimolante. Sempre nell’intervista confido infatti il coinvolgimento profondo vissuto rispetto alla sua ricerca esistenziale e spirituale: mi è stato infatti difficile staccarmi da quel lavoro e portarlo a compimento per la pubblicazione, perché la passione che genera mettersi alla ricerca, scoprire nuove idee, trovare in grandi artisti come lui conferma di alcune intuizioni profonde, ma anche di fragilità e dubbi, è stata davvero un’esperienza molto coinvolgente.
Ho pensato così, per tenere viva anzitutto in me questa fiamma, di ospitare temporaneamente nel blog una piccola serie di articoli ravvicinati, ognuno dedicato a una canzone di Harrison, con particolare riguardo a quelle che nel libro associo a riflessioni spirituali legate alla filosofia indiana ma non solo.
Un modo per rendere omaggio all’ex Beatle mentre si avvicina l’anniversario dei vent’anni dalla sua scomparsa, in un breve viaggio tra musica, letteratura e filosofia.
Come scrivo nel libro, Harrison è stato per me insostituibile fonte d’ispirazione. Come altri per lui, è stato un ponte verso l’Oriente e il pensiero indiano e attraverso le sue scoperte, le sue fascinazioni e alcuni suoi brani mi sono messo sulle tracce di una via di liberazione in otto passi.
The Inner Light
Il primo passo è stato – e non può che continuare a essere – la personale presa d’atto dell’oscurità (qualunque forma essa prenda, dalla confusione esistenziale alla sofferenza psichica) e la conseguente ricerca di luce. Quel particolare viaggio dentro di sé che George aveva cantato in The Inner Light, brano uscito come singolo beatlesiano nel 1968, e che suo figlio Dhani ha così reinterpretato nella primavera del 2020, in un momento di particolare oscurità per l’umanità intera:
Questo video mi colpì perché io stesso, in quei giorni, mi ritrovavo a suonare da solo a casa alla chitarra la semplice melodia di questa canzone che riascoltavo di continuo, preso dal suo fascino magnetico e potentissimo. Per settimane la usai come una sorta di mantra, meravigliandomi della quiete che portava alla mia mente.
Come è noto, Harrison l’aveva composta riprendendo i passi di un capitolo del Tao Te Ching:
«Senza uscire dalla porta di casa
puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra
puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie».
Per me fu come trovare una nuova, semplice, pace, in un periodo di reclusione forzata. Qualcosa di mai sperimentato prima. E con essa l’indicazione di una via. L’inizio di un viaggio tutto interiore, alla stregua del Pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse, in cui il protagonista muove insieme a una schiera di viandanti verso «la patria e la giovinezza dell’anima, il Dappertutto e l’In-Nessun-Luogo». Chiunque si metta in viaggio verso questa “terra del mattino”, infatti, non ha che l’anima come approdo finale: come un pellegrino, muove alla ricerca dell’essenza più pura e luminosa della propria interiorità, terra dai confini continuamente sfuggenti, come già insegnava Eraclito.
Harrison, alla ricerca di questa patria interiore, si era mosso giovanissimo per non abbandonarla più, grazie alla scoperta dell’India e all’amicizia con il grande sitarista e compositore Ravi Shankar, nata a metà anni Sessanta e terminata solo con la sua morte. Qui, una versione di The Inner Light della figlia di Ravi, Anoushka…
A breve il secondo passo: Beware of Darkness…