“Chiedi chi erano i Beatles”
C’è un pezzo degli Stadio il cui titolo recita proprio così. E dato che la risposta in quel pezzo non c’è, vorrei proporre un’interpretazione rispetto a che cosa possa aver rappresentato e quale senso possa aver avuto, da un punto di vista filosofico, l’esistenza dei quattro di Liverpool.
Dirò subito che tale risposta ci pone filosoficamente davanti alla questione del “dare una definizione’, e quindi rendere manifesta un’identità. Tuttavia, come vedremo, il caso dei Beatles ci fa apparire chiaro che l’identità ha a che vedere con la differenza, o, detto in altri termini più eraclitei, con il fatto che non c’è essere senza divenire. “Tutto scorre”, diceva Eraclito (o chi per lui), dal che si evince che il principio parmenideo secondo cui “l’essere è, e il non essere, non è”, almeno per quanto riguarda i Fab Four, trova i suoi limiti. Vero è tuttavia che una canzone per definizione non ha un carattere apofantico, e pertanto non ha senso interrogarsi sul valore di verità, ma penso che anche Parmenide, per le ragioni di cui diremo, non sarebbe rimasto immune al fascino dei Beatles.
Chi erano, dunque, i Beatles, posto che non ne possiamo dare una definizione univoca? Da un punto di vista squisitamente fenomenologico, dobbiamo innanzitutto sospendere il giudizio rispetto a tutto quanto pensiamo di sapere su di loro: il fenomeno di costume, la moda, l’uso degli acidi per “espandere l’area della coscienza”, come si diceva a quei tempi seguendo i libri di Timothy Leary o le varie leggende che sono sorte nei riguardi del gruppo. Metteremo tutto questo tra parentesi e lasceremo che siano le canzoni stesse a far emergere una definizione. Già, ma quali canzoni?
Abbey Road
I Beatles ci hanno lasciato in eredità pezzi straordinari, più o meno conosciuti, ed è difficile scegliere perché spesso un brano ne richiama un altro, seppure magari con il significato in qualche modo deformato, o viceversa, perché è impossibile citare un brano senza citare gli altri che ne sono il complemento. Se tuttavia dovessi scegliere una canzone rappresentativa per definire chi erano i Beatles, non ho dubbi: sceglierei il medley contenuto in Abbey Road che parte da You Never Give Me Your Money e finisce con Her Majesty. Cito Abbey Road non a caso, perché probabilmente anche i Beatles stessi con questo album del 1969, una cavalcata tra generi musicali destinata a indicare la strada che la musica avrebbe intrapreso da lì a una ventina d’anni, ebbero l’idea “chiara e distinta” che sarebbe stato il loro epitaffio.
Il medley incomincia con Paul che canta: “You never give me your money / you only give me your funny papers / and in the middle of negotiations / you break down”. È un riferimento alle condizioni economiche della Apple Corps, la casa discografica che i Beatles stessi avevano fondato, che versava in acque disastrose. Dopo un excursus condotto in uno stream of consciousness alla Joyce, la voce di Paul sembra riemergere e anche la struttura del pezzo stesso si evolve senza soluzione di continuità in una specie di filastrocca per bambini. Il medley prosegue con Sun King, pezzo caratterizzato da quel gusto per l’umorismo sarcastico tipico di John, che è un chiaro riferimento a Here Comes the Sun di George Harrison. Dopo la parentesi di Mean Mr. Mustard e Polythene Pam (i due pezzi si richiamano tra di loro), e dopo She Came In Through The Bathroom Window che riprende in qualche modo Maxwell’s Silver Hammer, con Golden Slumbers, una dolce ninna nanna opera di Paul, abbiamo la consapevolezza che stiamo per abbandonare il gioco dei rimandi una volta per tutte.
Un gioco tra identità e differenza, essere e non-essere
Appare così chiaro ora che cosa fossero i Beatles: una specie di “funzione alfa” winnicottiana, uno strumento musicale (viene da pensare a quella sorta di incrocio tra un pianoforte e un sitar che compare nel video di Strawberry Fields Forever) in virtù del quale qualsiasi cosa poteva essere introiettata, accolta, trasformata e così vivere in una realtà che fosse “al di là del bene e del male”, come direbbe Nietzsche. E anche l’ascoltatore che entra in relazione con loro viene invitato a partecipare al gioco del trasformare di senso la realtà, un gioco che i Beatles stessi giocano per primi: essere sempre diversi nel loro essere sé stessi e allo stesso tempo rimanere uguali nella propria identità nonostante la diversità da sé stessi; ecco il gioco, ecco la scommessa.
E tuttavia questo gioco di perdersi sempre di nuovo, di mettere a repentaglio tutto sempre da capo è un gioco pericoloso, a cui i quattro di Liverpool non si sottraggono mai nonostante divenga per loro sempre più chiaro che la posta sono essi stessi. Ma finché il gioco dura, l’incantesimo dei Beatles non cessa di stupire. Tramite la musica, con la realtà così trasformata ci si poteva giocare, ingrandirla, deformarla, spostarla (in A day in the Life l’espressione “4000 holes in Blackburn, Lancashire” è un riferimento ad un articolo del Daily Mail in cui appariva la notizia che erano state contate le buche di quella specifica regione, buche che poi, con uno spostamento di significato, nella canzone stessa ricompariranno trasformate: “Now they know how many holes it takes to fill the Albert Hall”, canta John, confermando il suo gusto per il surreale), ridicolizzarla e via così, in un modo così suggestivo che sono certo anche Parmenide avrebbe concluso che l’essere può non essere e viceversa.
La realtà, prendendo a prestito ancora dei termini nietzscheani, veniva così sublimata in termini “apollinei” e resa controllabile, cosa che li aiutava a sopportare la tragicità dionisiaca della loro esistenza, il dramma di non poter avere una vita normale, il peso dell’essere un Beatle (“Carry That Weight”) a cui era negata la possibilità di avere un senso come singolo individuo slegato dal gruppo. E tuttavia, nonostante il loro essere Beatles si riveli una tragedia sempre più insopportabile, i quattro non cessano di credere alla potenza dell’amore, che tutto assorbe e tutto trasforma, anzi, è come se volessero affidare all’amore le loro ultime parole, un po’ come Socrate che, di fronte ai suoi ultimi amici, mentre sorseggia la cicuta alla salute di Crizia, li esorta a compiere il bene e a non disubbidire alle leggi della città.
E così in The End lasciano il loro epitaffio: “And in the end / the love you take / is equal to the love / you make”, il cui senso è lì, ad essere interpretato sempre e di nuovo. E, forse per irriverenza, o forse a fare da contraltare ad un’espressione di verità fin troppo seria, dal sapore quasi shakespeariano, chiudono con un Her Majesty di cui cantano “one day, I’m going to make her mine”.
Chiedi, chi erano i Beatles…
Spunti bibliografici
Beatles 1962-1969. Tutti i testi, a cura di D. Franzoni e A. Taormina, Arcana edizioni, 1992.
M. Donà, La filosofia dei Beatles, Mimesis Edizioni, 2018.
Paolo Montecchio
laureato in Filosofia Teoretica alla Statale di Milano
Counselor filosofico in formazione presso ISFIPP – Torino