Il blues come prima radice: omaggio a Eric

Alla scoperta di Eric

Ero un ragazzino quando ascoltai per la prima volta una canzone di Eric. Nonostante fosse uscita da tempo, una radio continuava a passare I Shot the Sheriff, cover di Bob Marley che Clapton aveva portato al successo a metà anni Settanta. Fui immediatamente catturato dalla sua voce, dal ritmo del brano e dal suo stile.

Nel pub che frequentavo insieme agli amici, poi, il venerdì sera una band locale proponeva alcuni classici del suo repertorio come le immancabili Cocaine e Wonderful Tonight, oltre a pezzi meno noti ma per me molto più intriganti. Quanto bastava per volerne scoprire di più.

Probabilmente, però, non era ancora il momento giusto. Anche quando a inizio anni Novanta uscì l’Unplugged, un disco unico per intensità ed eleganza, non ero ancora pronto per comprenderlo a fondo. Nonostante lo ascoltassi a ripetizione, venivo poi presto risospinto verso altri artisti e generi musicali, visto che in quel periodo anche la musica indipendente italiana proponeva gruppi innovativi e pieni di talento.

Eppure, in un modo o nell’altro, sapevo che prima o poi ci sarei tornato.

La sei corde

Fu passati i trent’anni, quando dopo più di un decennio ripresi in mano la chitarra, che il nome di Eric riemerse lentamente in superficie.

Ricominciare a suonare in quel momento della mia vita non aveva più il significato di quand’ero adolescente. Il manico della chitarra non era più un ponte gettato verso il futuro, ma uno degli ultimi appigli rimasti a cui aggrapparsi per non cadere nelle acque torbide della melancholia. Ero davanti a un bivio cruciale, e non sapevo che strada prendere.

Così, in modo naturale, iniziando a buttare giù a orecchio qualche riff o un semplice giro di accordi, ripresi ad ascoltare le canzoni di Clapton. E questa volta non trovai ostacoli all’ingresso, nessuna porta chiusa: tutto il suo mondo musicale mi parlava e mi attraeva con una forza mai conosciuta prima. L’unica esperienza paragonabile che potrei citare, per intensità e portata, è la lettura di Nietzsche negli anni dell’università. Altro snodo cruciale.

Intuivo che ciò che stava dietro le sue canzoni e il suo modo di suonare derivava da esperienze uniche e al tempo stesso universali, da tribolazioni in fondo non distanti da quelle che attanagliavano me come molti altri.

Clapton

Quando lessi la sua Autobiografia, una vera e propria confessione esistenziale sul suo percorso di cadute e rinascite, non solo ne ebbi conferma, ma scoprii chiaramente perché sentissi un’affinità elettiva ineguagliabile con questo artista.

La ritrosia, la ricerca del purismo, il carattere schivo e introverso, una certa intransigenza giovanile, erano tratti di una personalità che sentivo vicina e affascinante.

Un talento forgiato alla scuola del blues sin dagli anni della prima adolescenza, quando la chitarra era spesso la sua sola compagnia, il suo unico possibile rifugio. Un talento che lui stesso ha rischiato di soffocare innumerevoli volte, per innumerevoli ragioni diverse.

Eppure, ad ogni passaggio cruciale della sua esistenza, un nuovo album, anche quelli più discussi, segnava una nuova tappa del viaggio alla ricerca di una salvezza, di una nuova direzione, e dunque di se stesso. Di crocevia in crocevia, from Crossroads to Crossroads.

Proprio come era stato per i suoi “bluesmaster”, Robert Johnson ed Elmore James su tutti.

La prima radice

È in questo nucleo interiore, in questo sapere dell’anima, come avrebbe detto Maria Zambrano, che ho colto una sua possibile “filosofia”. Si tratta di un sapere delicato e fragile proprio perché vitale, costantemente esposto al pericolo di essere soffocato e spazzato via. Per questo è necessario ri-cominciarlo sempre dal suo inizio, anche a costo di lasciarlo svanire per poi portarlo a rinascere.

Questo inizio, questa prima radice, per Eric è il blues, quello al quale è tornato magistralmente negli anni Novanta. Perché il blues stesso è intriso di questo sapere costruito sull’esperienza vissuta e sui propri errori, non astratto ma calato nell’esistenza concreta, quella che si confronta quotidianamente con le domande sul proprio destino e sulle scelte da compiere per inseguirlo.

Un tale sapere, come ha scritto la Zambrano, non è intellettualistico e non fonda nulla: è piuttosto un costante esercizio di vibrazioni e deviazioni, di accordi e riaccordature, e segue un ordine ritmico e musicale.

Il percorso artistico di Slowhand è stato un’ininterrotta ricerca di identità e autenticità, una questione che riguarda tutti, in fondo. Proprio come la ricerca di quel personale sapere dell’anima che ci distingue gli uni dagli altri, e che si fonda, come scriveva Kierkegaard, sul doloroso coraggio di scegliere se stessi: «Chi sceglie se stesso scopre che quell’io che sceglie ha un’infinita molteplicità in sé. Ha una storia nella quale riconosce la sua identità ed è ciò che è solo attraverso questa storia. Perciò ci vuole del coraggio per scegliere se stesso; poiché, mentre pare che egli si isoli più intensamente che mai, nello stesso tempo sprofonda più che mai in quella radice per la quale è congiunto al tutto» (Aut Aut).

Per me Eric è tutto questo, e non solo.

In un momento in cui è stato molto criticato per il suo ultimo singolo, voglio esprimere la mia più profonda riconoscenza per la musica che ci regala da decenni e per essere un’inesauribile fonte di ispirazione. Sperando di poterlo ancora riascoltare in Italia. Thank you so much, Mr Clapton, in these hard times…