Seguo Stefano Stranges via social da tempo. Non sono un esperto di fotografia, ma i suoi scatti mi catturano immediatamente. Sia perché puntano l’obiettivo su realtà altrimenti poco conosciute o ignorate, sia perché denotano uno stile unico.
Stefano negli anni ha pubblicato reportage su riviste e quotidiani come Rolling Stone, Millenium del Fatto Quotidiano, Il Manifesto, La Stampa, la Repubblica… Alcune sue foto fanno parte della mostra collettiva EXODOS, che lo scorso anno ha ricevuto la Medaglia d’oro al valore sociale dal Presidente della Repubblica.
Curioso di conoscere qualcosa in più della sua attività e del suo mondo, l’ho contattato per fargli qualche domanda su fotografia, reportage e musica. È un onore per me ospitarlo in questo blog, che quando possibile si aprirà anche a forme d’arte e d’espressione diverse.
Stefano, immagino che la tua passione per la fotografia e il fotoreportage nasca da molto lontano. In che modo sei poi riuscito a trasformarla in una professione indipendente?
Sin da quando ho iniziato ad interessarmi di fotografia, ero attratto dalla fotografia documentaristica, quel tipo di racconto fatto per immagini che potesse mostrarmi una storia non conosciuta. Era il 2001.
Fin da piccolo restavo incuriosito anche solo dalla luce che proveniva da una finestra di un palazzo chiedendomi: «Chi vivrà in quella casa?». Forse quel tipo di curiosità negli anni ha creato la base del mio lavoro.
Ho iniziato da autodidatta, passando un paio d’anni a sperimentare con diversi tipi di pellicole e perdendo il senso del tempo in una camera oscura costruita in casa. Questo prima di decidere di fare un corso di fotografia per capire come potevo far mie le regole base e imparare, volendo, a trasgredirle. Il primo assignment era infatti un lavoro artistico.
Quali esperienze di reportage di viaggio ti hanno segnato di più in questi ultimi anni?
Molti reportage, in modo differente, mi hanno segnato e insegnato molto, in questi anni di lavoro. Ho avuto la fortuna di poter documentare e vivere dall’interno due mondi diametralmente opposti, dai reportage di viaggio commissionati da brand e aziende che mi hanno dato modo di mostrare quelle realtà e quegli ambienti dorati, fatti di esperienze meravigliose ed esclusive, ad un altro mondo, che rappresenta l’altra faccia della medaglia, quella meno luccicante, più cupa e drammatica ma sicuramente quella che umanamente mi arricchisce di volta in volta.
Cosa significa puntare l’obiettivo sulle problematiche contemporanee più urgenti, in particolare realtà di sfruttamento, guerre civili, disastri naturali e conseguenze dei cambiamenti climatici? La potenza delle immagini di fronte a tutto questo può servire, credo, da antidoto contro le varie “propagande” o campagne d’occultamento. E un tuo scatto può diventare l’occhio con cui anche noi possiamo gettare uno sguardo su queste realtà.
Quando si è testimoni oculari di una problematica contemporanea e si raccolgono storie, testimonianze di persone o ambienti che la subiscono, è nostro dovere cercare di riportarla nel modo più oggettivo ed efficace. Solo così il nostro lavoro ha la possibilità di dare un contributo reale a quello che spesso viene occultato o travisato. Non sempre questo basta a far cambiare rotta. Le persone che si aprono e ti raccontano, sovente, riversano una speranza nel tuo documento che quasi mai raggiunge gli obiettivi desiderati. Purtroppo non abbiamo il potere di cambiare le cose e questo è svilente. Ma abbiamo la possibilità di mostrarle a chi le può cambiare, che sia una persona o un’intera comunità.
Quando uno scatto riesce a far cambiare, anche se di poco, la vita di una persona in difficoltà, è già un piccolo trionfo.
Come ad esempio quello di Odeta, una giovane mamma fotografata nella sua piccola tenda del campo profughi nel North Kivu (RD Congo) mentre allatta il suo bambino Jackson. Siamo in una delle regioni più ricche del mondo, e per questo sfruttate e massacrate, dove viene estratto il coltan e il cobalto, minerali necessari per i nostri amati materiali tecnologici e dove il business chiude un occhio riguardo alle violenze e allo sfruttamento umano e ambientale che ne consegue (reportage “Le vittime della nostra ricchezza” 2016).
I soggetti delle tue fotografie sono spesso esseri umani colti in situazioni di fragilità, che vivono forti disagi e avversità, da cui traspare però una forza e una dignità pressoché inscalfibili. Trovo in questo una grande risonanza con alcuni musicisti che seguo da sempre, e quindi forse uno scatto fotografico a volte può essere come una canzone o un verso: un’istantanea capace di fermare quell’attimo e dare immagine e voce a una percezione universale…
Dal 2012 ho iniziato a voler immortale istanti “positivi” che percepivo in molte storie che riportavo, anche in condizioni di estrema avversità. Da qui è nata una raccolta di foto, estrapolate dai vari reportage in diversi luoghi e situazioni del mondo, legate dal comune denominatore della ri-costruzione di un nido anche in mancanza di vere e proprie pareti, porte o finestre. Il nido della famiglia, delle relazioni in una determinata comunità. L’essere umano ha questo potere di riadattamento, di resistenza al dramma. Ho voluto dare un titolo a questa raccolta, a questo fil-rouge senza un termine: Homeland.
Uno dei tuoi ultimi lavori, Quell’anno in cui…, riguarda questo 2020 tormentato dentro al quale siamo ancora immersi. Hai puntato l’obiettivo verso una nuova frontiera, imprevista, ma questa volta senza dover prendere aerei… Che esperienza umana e artistica è stata?
La documentazione di una storia che ha investito il mondo intero e che stava avvenendo sotto casa era una di quelle situazioni che in un primo istante mi hanno lasciato confuso, spiazzato. Ho impiegato alcuni giorni per pensare di raccontare questa nuova condizione, e di come farlo in modo che non fosse soltanto una notizia di news della quale eravamo già più che abbondantemente investiti.
Ho deciso fin dall’inizio che il prodotto finale del mio lavoro sarebbe stata una raccolta di vicende di umanità, anche nell’emergenza, raccolte in un libro. Da marzo ai primi di maggio ho girato parecchio intorno alla mia città, dalle sale di rianimazione, luogo fulcro dell’emergenza, ai vari spazi che si sono riadattati per portare aiuto di vario tipo.
Così è nato Quell’anno in cui... I tre puntini di sospensione sono la “porta” aperta alla condivisone dell’esperienza, un invito a riflettere per continuare il titolo. Volevo sin dall’inizio un documento di archivio storico, un contributo all’essere umano che si è reinventato, che non si è fermato e che ha reagito ad un fatto epocale come una pandemia.
Non avrei però pensato, né voluto, dover rivivere quei due mesi e pensare di continuare a sviluppare questa storia.
Sicuramente il risultato, la speranza e la resistenza immortalata e riportata sia nelle foto che nei testi di Quell’anno in cui… non avrei più modo di percepirli.
Il libro Quell’anno in cui… è stato stampato nel settembre 2020 ed è disponibile in una prima speciale edizione limitata a 200 esemplari firmati e numerati (Prinp Editoria d’Arte).
Come le 200 foto che compongono i 5 capitoli del libro. Come i 200 metri che delimitavano la nostra libertà di movimento nel primo periodo di lockdown.
In che modo la musica entra in gioco all’interno del tuo lavoro e in relazione alle immagini che stai sviluppando?
Ho iniziato a vedere le immagini legate alla musica intorno ai 5 anni, quando la domenica mattina in casa mio papà metteva su i vinili dei Pink Floyd, con le loro copertine metafisiche. Penso ad esempio alla suite Atom Heart Mother. Ma anche a Jethro Tull, Led Zeppelin… Sono cresciuto immerso nella psichedelia visionaria degli anni Settanta e me la sono portata poi con me quando ho iniziato a occuparmi di fotografia.
Dalla selezione delle immagini fino all’elaborazione e all’editing, lavoro sempre ascoltando una musica che si presta a quella situazione. Scelgo canzoni che mi portano al mood della storia che sto affrontando attraverso le immagini: solitamente musica strumentale e sperimentale, che mi permetta di viaggiare, senza concentrarmi sulle parole…
Quando invece voglio soffermarmi più sui testi, prediligo cantautori nostrani come De Andrè o Dimartino. A volte ascolto anche musica classica, adoro Satie ad esempio.
La musica mi porta a concentrarmi e addentrarmi ancora di più nella storia che sto raccontando e in tutto il processo di editing: è una parte importante del mio lavoro.
So che hai realizzato anche performance ed esposizioni delle tue fotografie in collaborazione con musicisti…
Nell’ultimo lavoro ho avuto la possibilità di collaborare con il Laboratorio Permanente LabPerm di Domenico Castaldo: abbiamo unito una mia proiezione di circa mezzora e la loro ricerca sonora e musicale sul canto e la voce, adattata al lavoro fotografico. Ne è nata la performance Quell’anno in cui… (Tragodia), con il supporto musicale e cantato alle mie videoslide. È stata una collaborazione molto interessante, un’esperienza sensoriale duplice, sia per immagini che di ascolto, della storia e delle situazioni raccontate.
Alla fine le immagini lasciano posto al buio in sala, allo schermo nero, mentre la luce va sui performers per tre minuti di canto finale: è un modo per uscire dalla storia, per essere accompagnati “fuori”, e fare ritorno alla realtà.